Loro 1: Più che Loro, LUI.
All’inizio ci sono Loro.
All’inizio fu una pecora, candida schiumosa, sembra latte, inquadrata nella prima sequenza del film. E poi ci sono rinoceronti che vagano per la città, e feste contrappuntate da ritmi martellanti, riprese che vorticano su corpi di donne discinte che mimano amplessi in nuvole di cocaina e su questo sfondo babilonese, politici grandi e piccoli, mezzecalzette del malaffare, rampanti manager e raffinati mezzani trafficano come se la fine del mondo li attendesse dietro l’angolo, pronta a relegarli nel limbo dei dimenticati.
Tanto Sorrentino, in questa prima parte, forse troppo. Lo stile sfarzoso e gustosamente manieristico de La Grande Bellezza, perché è impossibile non tornare alle immagini di quel film, qui troppo spesso si involve in una sterile citazione di sé stesso, quasi non esistessero altre soluzioni per la rappresentazione di un mondo vuoto ed autoreferenziale. Solo nani e musica assordante, personaggi tagliati con l’accetta del grottesco, Gargantua e Pantagruel, orchi moderni della nostra classe dirigente, popolano il lungo preambolo, dove si racconta di un manager (Riccardo Scamarcio) che vuole sfondare nel mondo dello spettacolo con la sua scuderia di culi e tette, mostrate e vendute al miglior offerente. Questi sono Loro, una teoria schiamazzante di clown e buffoni, servitori di due padroni, spinta da un unico irrinunciabile scopo, quello di arrivare alla corte di Lui.
Quando “Lui”, appare sui telefonini, questi brillano, come brillano gli occhi dei chiamati dal Signore (anzi, no, perché veniamo a scoprire che anche Lui, ha un essere al di sopra, tutti lo chiamano “Dio”, ma nessuno sa chi sia…).
Quando “Lui”, compare, ben oltre la metà del plot, (non vi dico come, per non rovinarvi la sorpresa), anche il film ne trae un immediato giovamento, come se le qualità taumaturgiche del personaggio giovassero anche all’opera che ne parla. Il film acquista più serenità ed equilibrio nel raccontare le pene d’amore di un Berlusconi imbolsito che tenta di riconquistare la sua Veronica perduta (una sorprendente Elena Sofia Ricci).
Tutta la seconda parte, gustosissima, è venata da un’ironia sottesa punteggiata da personaggi singolari che si stagliano nelle aerose riprese della villa del nababbo, come sculture di Brancusi, ordinatamente disposte su un green di 18 buche. Veronica legge Brodskij, e Lui gli canta canzoni napoletane (a proposito, ma quanto è bravo Servillo a cantare, lui napoletano, canzoni in dialetto, simulando una cadenza milanese?), Veronica gli propone un’avventura in Cambogia per ritrovarsi e Lui sbircia, annoiato, lo yacht ricolmo di donne che gli naviga accanto ed intanto le appronta una sorpresa finale, da far invidia allo sceneggiatore de Il Tempo delle mele. Insomma, un adolescente brillante e irrispettoso, che vive la sua vita bruciandola giorno per giorno, sempre al massimo, un torero per l’appunto, come, lo stesso Sorrentino ci ricorda, citando Hemingway: “Non c’è nessuno che vive la propria vita sino in fondo, eccetto i toreri”.