London town

Sebbene si basi sulla sceneggiatura Untitled Joe Strummer project di Sonya Gildea e Kirsten Sheridan, non è affatto un biopic riguardante il leader della band british punk che ci ha regalato, tra le molte, Should I stay or should I go il quarto lungometraggio diretto dal tedesco Derrick Borte.
Infatti, il Jonathan Rhys Meyers di Mission: impossible III e From Paris with love concede anima e corpo al grande Joe, ma la oltre ora e mezza di visione non si concentra sui Clash, bensì li tira in ballo per fargli fare da sfondo e, in un certo senso, da anima per un racconto di formazione non privo della piaga del bullismo e immerso nel Regno Unito di fine anni Settanta.

Un Regno Unito in cui stava salendo al potere Margaret Thatcher e dove, tra riletture di Pressure drop e Clash city rockers, troviamo il giovanissimo Shay interpretato dal Daniel Huttlestone visto nel disneyano Into the woods, il quale vive insieme alla sorellina Alice alias Anya McKenna-Bruce e al padre Nick, ovvero Dougray”Marilyn”Scott, di sera autista di taxi, il giorno dedito ad un negozio di pianoforti tutt’altro che redditizio.
Lo Shay che non manca di suonare proprio al piano l’Ave Maria di Johann Sebastian Bach e del quale non solo seguiamo il rapporto portato avanti con la madre Sandrine incarnata Natascha McElhone, che lo ha abbandonato da tempo per andare a viverre con squatters e intraprendere la carriera di cantante, ma anche quello con la casualmente incontrata Vivian, in possesso delle fattezze di Nell Williams.

La Vivian che, appunto, lo avvicina alle note clashane, tra walkman, vinili (e qui c’è l’effetto nostalgia) ed esecuzioni di White riot e Clampdown; mentre si parla dei testi contro il razzismo e non risultano assenti attacchi da parte di skinhead durante un concerto, cortei antinazisti e manifestazioni di movimenti contrari agli immigrati, “rei” di togliere il lavoro agli inglesi.   

Perché è proprio questo aspetto relativo alle tensioni sociali dell’epoca, a quanto pare, ad interessare principalmente al regista; che, però, pur delineando il percorso di crescita del protagonista in maniera non disprezzabile, non riesce a lasciar bene intendere dove voglia andare a parare. E, di conseguenza, allo spettatore non rimane che accontentarsi della gradevolezza generale dell’operazione, preferendo di intenderla in qualità di tributo a Strummer, soprattutto grazie alla piccola emozione regalata dall’epilogo da favoletta al ritmo della intramontabile I fought the law.