L’Isola dei Cani di Wes Anderson regala un’apertura degna di nota alla Berlinale 2018
Giappone, 2037. Nella città di Megasaki è varato il decreto di Trash Island, ovvero una disposizione secondo cui tutti i cani devono essere espulsi e messi in quarantena su un’isola remota (una vera e propria discarica) per via di una contagiosa influenza canina che potrebbe altrimenti diffondersi a macchina d’olio. Il cane espulso numero 0 e primo di una lunga serie sarà proprio Spots, amico fedele del dodicenne Atari Kobayashi, il quale partirà poi a bordo del suo Junior-Turbo Prop per raggiungere l’isola e mettersi sulle tracce del proprio amico a quattro zampe. Nel frattempo, però, a Megasaki City c’è chi lavora al definitivo progetto di annientamento della razza canina e chi alla produzione di un vaccino che possa invece curare l’epidemia in atto. Forze contrarie destinate, prima o poi, a incontrarsi e scontrarsi anche grazie al viaggio intrapreso dal piccolo Kobayashi.
Ancora un viaggio nel fantastico mondo di Wes Anderson
Al suo secondo film d’animazione dopo Fantastic Mr. Fox, Wes Anderson torna al protagonismo degli animali con L’isola dei cani, racconto malinconico ed escapista su una realtà politicizzata e ‘marginalizzata’ dove i cani diventano metafora di esistenze neglette, rifiutate, e con stratagemmi - neanche troppo sottili - allontanate. Il cane, per antonomasia miglior amico dell’uomo, si traduce dunque in fardello di cui sbarazzarsi, e in simbolo rappresentativo di tutto ciò che nelle società viene per un motivo o per un altro ritenuto inadeguato e ‘gettato’. Ma non tutto il male vien per nuocere e attraverso un racconto pieno – di colori, simbolismi, elementi del cinema giapponese, ma anche ironia, sarcasmo, malinconia ed espressioni caricaturali e non – Wes Anderson lancia il suo piccolo eroe Kobayashi in un percorso di speranza, liberazione, e auspicabile giustizia.
Attraverso l’esilarante complicità costruita poco alla volta con un branco di cani dell’isola ‘dei rifiuti’, il giovane uomo restaurerà con le sue sole forze e uno a uno i tasselli di un’umanità positiva, coltivata nell’aiuto del prossimo, nel sacrificio e nella riabilitazione definitiva di ciò che si era sbrigativamente cestinato nel calderone dei ‘rifiuti’. Anderson scrive, dirige e produce quest’opera ricca e matura che sfrutta la dinamicità dello stop motion al suo meglio, soffermando lo sguardo sull’ironia delle piccole lotte tra ‘razze’ e ‘mondi diversi’ e sulla forza delle grandi coalizioni positive, quelle generate da una sana voglia di essere sé stessi, lasciando la libertà agli altri di fare altrettanto.
Una regia barocca ma mai eccessivamente carica che viaggia di ritmo e con la costante capacità di bilanciare momenti di sovrapposizione e momenti di sottrazione, si somma qui a una sceneggiatura di indubbio valore dove forme e contenuti si fanno trasportare a braccetto da una creatività che non teme momenti di stanca. Inventiva e originalità nutrono infatti ogni singola scena de L’isola dei cani proiettando di fatto lo spettatore, ancora una volta, nel fantastico mondo di Wes Anderson (Il treno per il Darjeeling, Moonrise Kingdom, Grand Budapest Hotel), un regista oramai dimostratosi ampiamente capace di ri-creare un mondo intero in ogni piccolo dettaglio, a partire da nomi e paradossi – Jupiter ed Oracle, ad esempio, predicono il futuro ma solo perché comprende le previsioni del tempo in tv. Eppure, la dimensione fantastica dell’opera, seppur fagocitante, riesce comunque a farsi da parte quando entrano in scena il sentimento, la lotta dei valori, la forza della determinazione. Un crescendo di elementi che messi insieme fanno da traino al film, esaltandone la bellezza e aumentandone il valore intrinseco. Un viaggio, ancora una volta catartico, alla ricerca di chi siamo davvero e di chi vorremmo essere, consapevoli del fatto che non è il nostro passato a stabilire la nostra identità, ma piuttosto la forza con cui ci sforziamo di mostrarci davvero per ciò che siamo.