L’interpretazione violenta e razzista del buddhismo de Il Venerabile W.
“I pesci-gatto hanno queste caratteristiche principali: crescono molto velocemente e si riproducono molto in fretta. Inoltre sono violenti. Divorano la loro stessa specie e distruggono le risorse naturali dell'ambiente in cui vivono. I musulmani sono come questi pesci-gatto”. A pronunciare queste parole non è un suprematista bianco dell’ultima ora, ma Ashin Wirathu, monaco buddhista nato e cresciuto in Birmania (Myanmar) e protagonista de Il Venerabile W., documentario sorprendente, scioccante e illuminante del regista francese Barbet Schroeder.
Questo splendido lavoro del filmmaker d’oltralpe è il capitolo conclusivo della sua ‘Trilogia del Male’, iniziata nel 1974 con Generale Idi Amin Dada (ritratto dell’allora dittatore ugandese) e seguita nel 2007 da L’avvocato del terrore (soprannome di Jacques Vergès). Come nei due precedenti progetti, Schroeder incontra e fa parlare, senza mai esprimere un proprio giudizio, un personaggio attraverso il quale il male assume volti diversi, lasciando così che abominio e verità vengano allo scoperto senza l’esigenza di alcun filtro: la ferocia messa a nudo. Già, perché a volte per rendersi conto della malvagità non sono necessari interventi esterni, e il cineasta sembra averlo compreso molto bene. Riprendere il Venerabile W. mentre recita in ogni suo ‘sermone’ frasi di odio e disprezzo verso gli islamici – di cui fanno parte i Rohingya, che secondo i rapporti delle Nazioni Unite sono una delle minoranze etniche più perseguitate nel mondo – è infatti più che sufficiente per far capire al pubblico in sala quanto l’orrore non abbia bisogno di intermediazione.
Wirathu, leader spirituale del movimento anti-musulmano in Myanmar, spiega con assoluto ‘candore’ che la difesa della “razza” è una priorità a cui ogni bravo buddhista dovrebbe contribuire. Per W. i musulmani non sono altro che conigli, e dato che come tali si riproducono troppo velocemente, la soluzione migliore è quella di scacciarli dal Paese. La sua propaganda populista infarcita di termini come ‘invasione’ e ‘minaccia’ per la religione buddhista, la grande ammirazione che prova per Donald Trump e le politiche da lui adottate rispetto all'immigrazione, l’uso smodato dei social per diffondere odio e far accrescere nella popolazione la paura dell’Islam sono soltanto alcuni degli aspetti che caratterizzano il Venerabile, rendendolo simile più a un razzista di bassa lega che a un monaco. Aiutato da materiale di repertorio e immagini filmate con smartphone da testimoni presenti alle numerose violenze perpetrate ai danni dei Rohingya, Schroeder realizza un documentario asciutto, a tratti disturbante, urgente e indimenticabile.
Ma come è stato possibile che in una Nazione dove il 90% degli abitanti ha adottato come fede il buddhismo, religione la cui essenza è basata su un modo di vivere pacifico, tollerante e non violento, accadesse un genocidio di tale portata? Sì, perché di genocidio si tratta: 10.000 sono i Rohingya morti per mano dell’esercito birmano (fonte Medici Senza Frontiere) e 700.000 quelli costretti alla fuga, di cui 300.000 rifugiati in campi profughi in Bangladesh (dati presentati dall’Onu in data 27/8/2018).
La risposta è racchiusa nei 100 minuti di proiezione di questo doloroso ma imperdibile documentario, che in un crescendo di rivelazioni e spietatezze ad opera di uomini in tonaca rossa, e contrapponendo alla stortura religiosa una voce fuori campo che ricorda agli spettatori la vera natura del buddhismo, mostra il tallone d’Achille di tutte le religioni: l’uomo e le sue interpretazioni di comodo.