L'infanzia di un capo: quando l'opera prima è un esercizio di stile
Il film di Brady Corbet - opera premiata a Venezia nel 2015 con il Premio Orizzonti alla Migliore Regia e con il Premio Luigi de Laurentiis alla Miglior Opera Prima - è un film d'autore sotto svariati punti di vista.
Con accezione non proprio positiva, spiace dirlo. Per quanto infatti, fin dalla prima inquadratura, si intuisca la volontà del regista di sfruttare il suo esordio dietro la macchina da presa per fare un vero e proprio esercizio di stile, per alto riuscito in più frangenti, la sceneggiatura si arrovella ben presto su se stessa conducendo verso un prodotto assai slegato, in cui gli stessi personaggi non risultano approfonditi come meriterebbero, l'epoca storica cui si accenna mediante interessanti filmati di repertorio non è esaminata in maniera appropriata e il tutto appare una lunga forzatura che porta a detestare cordialmente il piccolo protagonista.
Sebbene presenti delle evidenti falle nella sceneggiatura, fatta di dialoghi diradati e situazioni poco chiare, il film tuttavia offre un modo di fare cinema diverso, innovativo quasi, che sembra fondere l'antico con il moderno, in una danza macabra che suscita curiosità. I titoli di testa ad esempio, la cui grafica ricorda maggiormente i classici titoli di coda, scorrono sullo schermo accompagnati da una musica stridente e assordante che ben presto si interrompe, lasciando il posto a note rimbombanti e cariche di ansia. La stessa macchina da presa diventa un mezzo di cui esplorare le proprietà, non solo perché il film è stato girato in 35 mm ma anche perché, nel corso della narrazione, essa si lancia in sfrenati balli vorticosi intorno a protagonisti e/o dettagli, per poi immobilizzarsi e fissarsi su campi vuoti estremamente suggestivi e angoscianti.
Non sfugge l'omaggio al grande regista Stanley Kubrick, in particolare al suo indimenticabile Shining, di cui ritroviamo la simmetria perfetta di alcune inquadrature, una su tutte quella con il doppio ascensore, da cui, vista anche l'aura di forte inquietudine che permea la pellicola, ci aspettiamo che da un momento all'altro fuoriesca una cascata di sangue.
Angosciante, opprimente, cupo: liberamente ispirato all'omonimo racconto del 1939 di Jean-Paul Sartre e al romanzo di John Fowles Il Mago, del 1965, L'infanzia di un capo mette in scena la storia di un bambino e della sua difficile e controversa relazione con la madre, un'algida e rigorosa Berenice Bejo, in un paese straniero in cui risulta ancora più complesso ambientarsi. Se da un lato vede alienarsi sempre più la figura paterna, impegnata nel famoso trattato di Versailles, dall'altro le donne della sua esistenza scandiscono le sue giornate, ognuna con un tratto diverso del carattere, ognuna da lui soggiogata in maniera diversa.
Cadenzato dagli scatti d'ira del bambino, il film procede rovinosamente verso la drammatica conclusione che segna profondamente non solo il rapporto tra i due personaggi ma anche di questi stessi personaggi con l'epoca e le usanze degli inizi del secolo scorso, quando la Grande Guerra stava per finire e la tensione serpeggiava costante in tutta l'Europa, futuro teatro dell'avanzata del Fascismo. Lo stesso Prescott, interpretato dal giovanissimo Tom Sweet, alla sua prima apparizione sul grande schermo, impersona il dittatore di cui il regista, in maniera stravagante, inaspettata e coraggiosa, racconta l'infanzia. Prescott infatti, incarna l'idea di Sartre di una personalità ancora acerba che si rende conto, scatto d'ira dopo scatto d'ira, del potere che esercita sugli altri. La musica, di Scott Walker, ipnotica, aggressiva e dissonante, simboleggia perfettamente l'idea malsana del totalitarismo.
L'idea è buona, la confezione è intrigante ma la noia fa capolino a più riprese.
La sorpresa è data da Robert Pattinson, non nuovo ai film in costume, vedi per esempio Bel Ami, che riesce pian piano a scollarsi di dosso il ruolo del vampiro di Twilight, offrendo al pubblico una piccola ma buona interpretazione, sebbene il suo personaggio rimanga ambiguo e inspiegato.