L'immortale: Marco D'Amore riporta in vita il suo Ciro con un'opera epica
In uscita il 5 dicembre, grazie a Vision Distribution e Cattleya, L'immortale riporta sulla scena una delle figure del piccolo schermo più amate degli ultimi anni, Ciro di Marzio, il camorrista affiliato alla famiglia Savastano capace di risalire la china dopo le tante vicissitudini che lo hanno spesso portato molto vicino alla morte.
Il progetto, scritto, diretto ed interpretato dallo stesso Marco D'Amore, nasce dall'esigenza di quest'ultimo di raccontare la storia del personaggio che gli ha dato la grande popolarità, oltre a numerose possibilità di mettere in pratica il suo sogno della regia: in un'intervista l'attore di origini campane ha infatti rivelato che, durante la realizzazione dei film, si diletta a pensare e scrivere il background che circonda i suoi personaggi, così da poter restituire quella verità e quell'anima indispensabili sia per una migliore interpretazione che per una più intima fruizione. Ed è proprio da qui che nasce L'immortale.
Collegandosi direttamente con il finale della terza stagione di Gomorra – La Serie, la pellicola ci riporta indietro al 1980, alle devastanti immagini del terremoto di Irpinia, nel quale perdono la vita i famigliari di Ciro, costringendolo a crescere in un orfanotrofio di Napoli. Sin dalla frase di apertura - “il terremoto fa bene alla terra” - si hanno ben chiari il tono e l'atmosfera che percorrono la storia. Una storia di peccati e di sensi di colpa, di vendetta e di riscatto, una storia che mette in luce tutte le più impercettibili sfumature di un personaggio come Ciro.
Allevato da un criminale di bassa lega che sogna però in grande, Ciro mostra un senso della famiglia molto sviluppato e profondo, nonostante la tragica perdita dei suoi (e le vicende che seguiranno), ed è appunto questa una delle grandi tematiche del film, che trova il suo punto di forza nei momenti più intimi, umani, personali. Il legame con Bruno (Giovanni Vastarella), che fa in qualche modo le veci del padre, quello con Virgilio (Gennaro di Colandrea), in cui sembra di vedere una sorta di suo alter-ego, sino ad arrivare a quello con lo stesso Genny Savastano (Salvatore Esposito), fratello di sangue ma inteso non in senso tradizionale, vengono così letti sotto una nuova luce, che dà uno spessore maggiore e decisamente più emozionante al protagonista.
Dal canto suo D'Amore ha una percezione precisa del contesto, che fotografa con estrema cura, riuscendo a restituire il senso ed i valori che lo abitano: il coraggio che non si compra, la paura che dipende da quanto (e chi) hai da perdere, la morte che è sempre in agguato e che può essere un “regalo” da meritarsi, il dolore che si causa e si subisce, la solitudine che è il prezzo da pagare quando si sceglie questa vita.“La gente come noi è condannata a restare sola” dice ad un certo punto Ciro, ed è grazie a queste semplici ma efficaci battute che viene fuori tutta la portata del progetto e, soprattutto, del personaggio.
Capace di immergere completamente lo spettatore all'interno della narrazione, che alterna momenti intimi a scene degne del miglior cinema d'azione, tra la Napoli degli anni Ottanta e la Riga dei giorni nostri, D'Amore realizza un'opera potente, sentita, a tratti epica – merito anche delle splendide musiche dei Mokadelic e della fotografia di Guido Michelotti – donando al tempo stesso una nuova vita al suo Ciro. É attraverso i suoi occhi che leggiamo ogni cosa ed è ai suoi occhi che ci rivolgiamo per conoscere la verità.