Libere, disobbedienti, innamorate – In between

Citato erroneamente da più fonti come il nuovo Sex and the city in chiave mediorientale, Bar Bahar - titolo originale che in lingua araba significa ‘tra terra e mare’, e in quella israeliana ‘né qui né altrove’ - è in realtà distante anni luce dalla serie americana che a suo tempo divertì milioni di spettatori: ed è un gran bene. Sì, perché la stupefacente opera d’esordio della regista palestinese Maysaloun Hamoud, nata a Budapest ma cresciuta in un villaggio a nord di Israele, mostra al pubblico quanto, in alcune zone del mondo, la strada da percorrere per giungere all’emancipazione femminile sia ancora lunga.

Tre ragazze palestinesi condividono un appartamento a Tel Aviv: Laila, vivace e disinibita avvocatessa molto sicura di sé, proveniente da una famiglia borghese musulmana; Salma, Dj lesbica con genitori cristiani ultra conservatori; Nour, timida studentessa modello legata alle regole ortodosse della religione islamica. Nonostante le diversità, il desiderio nutrito da ognuna di loro è il medesimo: poter affermare liberamente la propria identità...

Attraverso una quotidianità fatta di serate in discoteca, canne sempre a portata di mano, voglia di divertimento, tabù infranti, aspettative deluse e solidarietà tra amiche, la cineasta trentaquattrenne offre un forte e vibrante ritratto della nuova generazione di donne arabe che lottano per l'uguaglianza: sentirsi uguali non soltanto nei confronti degli uomini, ma, in questo caso, anche degli israeliani che troppo spesso le giudicano con sguardo accusatorio. Libere, disobbedienti, innamorate, titolo con cui il film uscirà in Italia grazie alla Tucker Film, oltre ad essere un incoraggiamento sensibile, elegante e deciso a non arrendersi alle evidenti limitazioni dei diritti umani, è anche un appello a considerare il rispetto della libertà individuale come il vero pilastro su cui fondare una società civile.

Vincitrice di numerosi premi ottenuti in diversi festival cinematografici, quali quello di Toronto, San Sebastián e Haifa, l’opera franco-israeliana tratta con asciuttezza e una buona dose di umorismo un tema universale, anche se con i dovuti distinguo. Basti pensare a un qualsiasi piccolo centro delle nostre province, dove girare in abiti succinti potrebbe scatenare le reprimende di malelingue ovunque in agguato. A Tel Aviv - capitale laica e liberale dello Stato ebraico da sempre considerata la città della vita notturna più sfrenata, delle mille luci e dei profumi di spezie - per le donne palestinesi la vita risulta comunque difficile, e ciò per il barcamenarsi tra la loro tradizione culturalmente misogina e patriarcale, e la brama d’indipendenza da guadagnarsi però a prezzi altissimi, come quello che Maysaloun Hamoud sta pagando da quando ha diretto il film: la Fatwa. Questa, che ricordiamo non essere necessariamente una condanna a morte, le è stata rivolta infatti dai musulmani integralisti palestinesi: sentenza che non emettevano dal lontano 1948.

La narrazione scorrevole - coadiuvata da una solida sceneggiatura, una splendida fotografia, una colonna sonora dall’innovativo sound mediorientale, un cast di attrici a dir poco eccellenti - unita all’interessante rappresentazione di una realtà in bilico tra terra e mare (Bar Bahar), metaforicamente vecchie usanze e modernità, sono ottimi motivi per non lasciarsi sfuggire la visione di questo piccolo, e al tempo stesso enorme, gioiellino cinematografico.