L'età d'oro
Per introdurre il sesto lungometraggio diretto dalla torinese Emanuela Piovano, che torna dietro la macchina da presa a sei anni da quel Le stelle inquiete (2010) che s’incentrò sulla figura della filosofa Simone Weil, ci sembra giusto partire da questa dichiarazione della stessa regista: “La prima persona che ho conosciuto a Roma è stata Annabella Miscuglio. Lei e suo figlio mi hanno ospitato a casa loro e la loro casa è stata per qualche anno la mia base romana. Annabella era una donna molto affascinante e tutto il mondo sembrava ruotare intorno a lei. Erano innamorati di lei tutti, uomini e donne. La sua casa era un via vai di artisti internazionali (Schifano, Godard, Dominque Sanda, Lou Castel, Alberto Grifi, Alvin Curran). Aspettavano di parlare con lei come fosse un Guru in un clima di libertà e scatenata creatività. Annabella era avanti nei tempi e nei costumi, ma certamente soffriva. Le era costata cara la condanna per sfruttamento della prostituzione in seguito ad un programma televisivo commissionato dalla RAI che divenne uno scandalo nazionale invece di un imponente documento qual era (AAA. Offresi, 1982 – tutt’ora sotto sequestro)”.
La Annabella Miscuglio che, pasionaria della Settima arte, con le fattezze di Laura Morante diventa sul grande schermo Arabella, in lotta per tenere in piedi un’arena cinematografica che ha restaurato e che da anni programma quotidianamente con i film che più ama, ma la cui totalizzante passione non viene vissuta bene dal figlio Sid, interpretato dal Dil Gabriele Dell’Aiera di Lontano dalla luce (2010) e completamente diverso da lei.
Ed è partendo dall’omonimo libro scritto da Francesca Romana Massaro e Silvana Silvestri che la cineasta mette in piedi i circa novantaquattro minuti di visione che – impreziositi dall’amichevole partecipazione della veterana del teatro Elena Cotta – intendono rappresentare un commosso omaggio al cinema che sa parlare del sé più intimo e delle aspirazioni.
Non a caso, se già il titolo richiama inevitabilmente alla memoria il classico L’âge d’or (1930) di Luis Buñuel, il percorso intrapreso dal giovane nella vita e nei ricordi della madre e degli amici che hanno colorato la sua infanzia lascia tranquillamente avvertire, in un certo senso, l’influenza da parte di alcuni lavori appartenenti alla filmografia francese che – appartenente in particolar modo alla Nouvelle Vague – prese piede tra gli anni Sessanta e Settanta.
Ma, con lo Stefano Fresi di Smetto quando voglio (2014) destinato a portare almeno un minimo d’ironia, il risultato finale appare in maniera esclusiva tanto soporifero quanto confuso... sebbene un forte velo di malinconia emerga efficacemente nel corso dell’operazione.