L'estate addosso
Il fatto che la oltre ora e quaranta di visione sia quasi del tutto parlata in lingua inglese e corredata di sottotitoli in italiano spinge a pensare, in un certo senso, che ciò voglia rappresentare una concreta conferma della presa di posizione contro il doppiaggio che il cineasta romano Gabriele Muccino non ha mai tenuto nascosta.
Il cineasta trapiantato negli Stati Uniti dai tempi de La ricerca della felicità (2006), ma che ha provveduto a raccontare sul grande schermo gli adolescenti italiani di Come te nessuno mai (1999), i trentenni de L’ultimo bacio (2001) e gli stessi, con dieci anni di più, in Baciami ancora (2010); per trovarsi ora, invece, a mettere in scena il viaggio a San Francisco che – a causa di un amico in comune e di un imprevisto – coinvolge il diciottenne Marco e la appena diplomata Maria, rispettivamente con le fattezze del Brando Pacitto della fiction tv Braccialetti rossi e di Matilda”Rings”Lutz.
Un viaggio che porta a fare i conti con loro stessi e a definire chi sono e chi vorranno essere non solo i due protagonisti, ma anche i Matt e Paul che li accolgono, ovvero i televisivi Taylor Frey e Joseph Haro, coppia che ha dovuto affrontare la profonda omofobia della patria New Orleans. Perché, man mano che apprendiamo la maniera in cui i due hanno scoperto il proprio status di ragazzi gay e che vengono tirati in ballo anche discorsi riguardanti la morte, non sono affatto i pregiudizi (compreso il razzismo) a risultare assenti nei dialoghi sfoggiati da quello che è destinato a trasformarsi in un quartetto di amici imperfetti ma felici.
Dialoghi che non mancano neppure di includere il classico confronto tra l’ossessione per i soldi tipica dell’America e la mafia e la corruzione che, da sempre, attanagliano l’Italia. Alimentando, però, soltanto il campionario di luoghi comuni che, come anche i già citati pregiudizi, sembrano essere sfruttati in maniera esclusiva (e senza ottenere un necessario approfondimento) per riempire una sceneggiatura – a firma dello stesso regista insieme all'esordiente Dale Nall – piuttosto povera di idee originali o, comunque, in grado di conquistare a dovere lo spettatore.
E non è certo la a lungo andare ammorbante voce narrante di Marco a migliorare la situazione di un elaborato al cui interno appare addirittura difficile riconoscere il lodevole ed inconfondibile tocco dell’autore di Ricordati di me (2003), qui intento a soddisfare il desiderio di realizzare un film “piccolo” e privo delle responsabilità dei grandi budget, ma che ci regala, probabilmente, il suo meno riuscito insieme al Sette anime (2008) interpretato da Will Smith.
Infatti, se escludiamo le consuete urla liberatorie e poco altro, è quasi impossibile credere che sia proprio lui a trovarsi dietro la macchina da presa, tanto più che perfino la direzione degli attori e la tecnica generale si rivelano meno convincenti del solito.