Leone nel basilico
Con una Ida Di Benedetto che vive in una casa di cura e si addormenta la mattina del 14 Agosto in una stazione ferroviaria quasi deserta dopo aver assunto un tranquillante, al primo impatto si respira vagamente aria di Neorealismo nel quarto lungometraggio cinematografico diretto dal romano classe 1961 Leone Pompucci, autore di Mille bolle blu (1993), Camerieri (1995) e Il grande botto (2000).
Aria destinata a spostarsi in un certo senso dalle parti del cinema di Sergio Citti man mano che la protagonista – vedova di un commercialista e madre di un commercialista che avrebbe voluto fare il chitarrista – si ritrova tra le mani un bimbo di pochi mesi (il Leone del titolo) lasciatole da una ragazza con le fattezze di Catrinel”Loro chi?”Marlon e che, appunto, finisce per dover accudire da sola girovagando in una Roma estiva e non troppo popolata.
Perché, con lo Stefano Fresi di Smetto quando voglio (2014) coinvolto nel piccolo ruolo di un veterinario, è la storia di una non più giovane donna sola, meschina e senza più speranze decisa a rimettere in discussione se stessa quella raccontata nel corso degli ottantacinque minuti di visione, oltretutto mirati a ribadire che non è mai troppo tardi per amare.
Storia accompagnata dalle belle musiche di Paolo Vivaldi e cui prendono progressivamente parte, tra gli altri, il Domenico Diele di ACAB – All Cops Are Bastards (2012), l’Augusto Fornari di Torno indietro e cambio vita (2015) e Carla”Ex”Signoris; mentre si sguazza tra sesso consumato in automobile, un grottesco imprevisto con un agente immobiliare ed un’escursione in un sexy shop in compagnia delle anziane Pia Velsi e Liliana Oricchio Vallasciani alternata al passaggio di una processione.
Tutte situazioni che – incluso un coraggioso nudo della Di Benedetto – provvedono sicuramente a fornire il campionario di allegorie e simbologie di cui, però, difficilmente si apprende il vero significato all’interno della schizofrenica e confusa sceneggiatura a firma di Giovanna Mori, la quale tenta in maniera evidente la carta dell’originalità attraverso il ricorso ad un clima pseudo-onirico di chiara ispirazione felliniana.
In conclusione, quindi, con la noia tutt’altro che assente rimangono da apprezzare soltanto le prove sfoderate dagli attori.