Legend

Pare che la prima volta che il vincitore del premio Oscar Brian Helgeland ha avuto modo di sentire la storia dei fratelli Reginald e Ronald Kray – sui quali già Peter Medak realizzò il The Krays – I corvi (1990) con protagonisti Martin e Gary Kemp del gruppo pop degli Spandau Ballet – sia stato quando, ingaggiato nel 1998 da Warner Bros per lavorare a un film dei Led Zeppelin mai andato in porto, un membro dell’entourage del chitarrista Jimmy Page e del cantante Robert Plant sfoderò una storia non vera che gli piaceva raccontare: essendo privo di un dito, disse, appunto, che a staccarglielo erano stati i due capi dell’organizzazione criminale dell’East di Londra coinvolti nell’area di Hoxton in incendio doloso, racket delle protezioni, rapine a mano armata aggressioni violente ed omicidi.

Capi che, partendo dalle pagine di un romanzo di John Pearson, il regista di Payback – La rivincita di Porter (1999) e Il destino di un cavaliere (2001) fa incarnare al mai disprezzabile Tom”Warrior”Hardy calandolo nella Swinging London degli anni Sessanta, tra alleanza con la gang dello spietato Charlie Richardson alias Paul Bettany e lavori al fianco della mafia americana; man mano che Ronnie, appena uscito di prigione, si mostra scheggia impazzita dalle tendenze violente, paranoiche ed auto-distruttive, mentre Reggie s’innamora di Frances Shea, ragazza del suo quartiere cui concede anima e corpo la Emily Browning di Sucker punch (2011).

Ed è proprio la loro tormentata storia sentimentale a rappresentare uno degli elementi cardine di oltre due ore e dieci di visione che, come c’era da aspettarsi, non mancano certo di esplosioni di violenza; in mezzo a martellate e pallottole in testa e al coinvolgimento di Christopher Eccleston nel ruolo dell’ispettore di polizia Nipper Read, le cui indagini minacciano l’ascesa dei due gemelli, acclamati al pari di vere e proprie celebrità e addirittura corteggiati da individui ricchi e famosi.

Ma, se da un lato la lodevole ricostruzione scenografica e le prove sfoggiate dagli attori – comprendenti anche il Chazz Palminteri de I soliti sospetti (1995) – non possono fare a meno di rivelarsi i maggiori pregi dell’insieme, oltretutto accompagnato da un’ottima colonna sonora di vecchi successi (si spazia da The look of love di Burt Bacharach a I’m into something good degli Herman’s Hermits), dall’altro non si fatica ad intuire l’assenza del particolare tocco che avrebbe contribuito a far distinguere il tutto dal resto delle più conosciute pellicole incentrate su argomenti analoghi.

Tanto che, senza riuscire ad evitare cadute nella fiacchezza narrativa, per poter mettere in piedi un giudizio viene una gran voglia di riprendere le parole utilizzate nel lungometraggio al fine di definire il mondo: non è bello, né brutto, è così e basta.