Le scaphandrier

L’idea del sommozzatore serial killer non è certo nuova, in quanto non solo venne sfruttata nel 1988 da Dick Maas nel suo Amsterdamned, ma fu anche al centro, ventisei anni prima, de La taverna dello squalo di Alfred Vohrer, tratto da Edgar Wallace.

Volendo proprio andare a cercare a tutti i costi un briciolo di originalità nello slasher diretto dall’esordiente Alain Vézina potremmo citare uno strangolamento eseguito utilizzando una murena e l’atipico look con scafandro sfoggiato dal palombaro omicida in questione, propenso ad eliminare ferocemente chiunque capiti sul suo cammino.

Omicida le cui motivazioni emergono man mano che si parla di una nave affondata un secolo addietro e che, affiancata da un giovane archivista di museo, una ambiziosa giornalista scopre che un collezionista di oggetti marittimi potrebbe essere collegato a quanto sta accadendo. Perché, con tanto di morti viventi pronti a fare la loro apparizione, è in maniera evidente anche Fog di John Carpenter a tornare alla memoria nel corso della circa ora e venti sguazzante tra arti mozzati, viscere in vista, un sanguinoso sgozzamento e arpioni che non aspettano altro che essere tirati in ballo per trafiggere corpi.

Circa ora e venti che, con evidenti rimandi a immagini e situazioni tipiche delle saghe Halloween e Venerdì 13, rivela chiaramente l’intenzione di apparire semplicemente in qualità di omaggio proveniente dal Canada alla celluloide horror statunitense sfornata negli anni Ottanta. Omaggio a suo modo nostalgico il cui sapore retrò viene conferito sia dalla struttura narrativa costruita sulle fantasiose uccisioni a ripetizione che dall’ampio ricorso agli effetti speciali di trucco, decisamente superiori rispetto ai pessimi (fortunatamente pochi) digitali.

Questi ultimi inevitabilmente rientranti tra le non molte pecche di un’operazione di sicuro non memorabile e piuttosto esile per quanto riguarda il plot, ma facente parte di quella tipologia di sempre meno presenti produzioni medie che si lasciano guardare senza dispensare noia in un XXI secolo cinematografico di genere unicamente diviso tra il lusso (spesso inutile) dei blockbuster e la eccessiva povertà dei lavori semi-amatoriali... spingendo il più delle volte l’appassionato di orrori da schermo a ripiegare su tanto trash quanto demenziali straight to video targati Asylum e simili.