'Le cose che verranno', il sublime Panta Rei della vita
“Non si può discendere due volte nel medesimo fiume e non si può toccare due volte una sostanza mortale nel medesimo stato, ma a causa dell’impetuosità e della velocità del mutamento essa si disperde e si raccoglie, viene e va”, Eraclito (V secolo a.c.).
La vita è dunque cambiamento, nulla rimane così com’è, e Nathalie, la protagonista di Le cose che verranno, all’età di sessant’anni dovrà fare i conti con questa ovvia realtà che, a ben vedere, così ovvia poi non è.
La trentaseienne Mia Hansen-Løve, talento emergente del nuovo cinema francese, racconta la rinascita di Nathalie, un’insegnante di filosofia sposata da tempo e madre di due figli ormai grandi, che abbandonata improvvisamente dal marito e colpita da un lutto familiare, grazie a una graduale presa di coscienza risorgerà dalle proprie ceneri più forte che mai.
Nel suo quinto lungometraggio la giovane regista affronta con eleganza e poesia il pensiero filosofico del ‘tutto scorre’, e indagando passo passo sull’evoluzione emotiva del suo personaggio principale lo tallona con la macchina da presa, gli gira intorno come un instancabile corteggiatore pronto a godere, e far godere gli spettatori, di ogni minimo segno di trasformazione verificatosi in Nathalie. L’occhio raffinato della filmmaker si muove infatti in una danza intima e sensuale che inseguendo lo sguardo, la gestualità, l’andatura, i silenzi e i pensieri di una donna di mezz’età, coglie il lento divenire delle cose: Panta Rei. Già, quel processo tanto inarrestabile quanto irreversibile, troppo spesso relegato dalla mente negli angoli più lontani del nostro Io, è il focus di questa splendida opera dove la natura e i suoi paesaggi riconducono l’uomo alla sua vera essenza: la mutazione, come quella che avviene nelle stagioni. Ma la cineasta va oltre l’evidenza delle cose, spingendo il pubblico a comprendere che, anche quando il terreno delle certezze comincia a sgretolarsi sotto i piedi, l’importante è intraprendere un percorso di consapevolezza, un viaggio all'interno di se stessi che, come nel caso di Nathalie, porterà a riappropriarsi della libertà che erroneamente si pensava di avere, e invece altro non era che il contorto frutto di illusorie sovrastrutture mentali.
L’Avenir - titolo originale con cui la Hansen-Løve si è aggiudicata l’Orso d’Argento al 66esimo Festival Internazionale del Cinema di Berlino - non è un film semplice, o meglio, è un lavoro complesso che se osservato superficialmente può apparire di facile lettura. I dialoghi, di stupefacente profondità, per venire apprezzati fino in fondo dall'ascoltatore necessitano infatti sia di buone conoscenze filosofiche, che del bagaglio di esperienze che solo gli anni possono fornire. Per coloro che hanno superato i 50, ad esempio, il confronto dialettico e concettuale tra Nathalie e un suo ex studente può rivelarsi uno dei momenti più toccanti dell’opera: da un lato la disillusione mista a nostalgia di qualcosa che si è già vissuto, dall'altro l'energia di chi è ancora in diritto di sognare. E cosa dire dell’interpretazione di Isabelle Huppert? Nulla, non c'è parola che potrebbe renderle giustizia!
Le cose che verranno è imprescindibile, un film destinato a rimanere a lungo sotto la pelle degli spettatori. E se l’intenzione della bravissima Mia Hansen-Løve fosse stata quella di ricordare al pubblico di disfarsi delle zavorre che impediscono l’evolversi dell’Io, per fare spazio al ‘momento successivo’… beh, il bersaglio lo ha centrato in pieno.