L’atelier: Un laboratorio di scrittura che diventa luogo di studio sociale e psicologico
Nella città di La Ciotat, un tempo nota per la fiorente industria dei cantieri navali oramai chiusi a seguito della crisi, un gruppo di sette ragazzi viene selezionato per partecipare a un laboratorio di scrittura insieme alla nota scrittrice Olivia (Marina Foïs). Il gruppo è eterogeneo non solo dal punto di vista razziale (ci sono bianchi francesi, francesi di colore, due ragazzi di origini arabe), ma anche dal punto di vista di interessi ed ambizioni. All’interno del workshop si fa ben presto largo lo spirito ribelle e provocatore di Antoine, un ragazzo francese le cui uniche passioni sembrano essere il mare e la violenza. La sua creatività su pagina verrà infatti presto fuori come la particolare bravura a descrivere scene di sangue, e di delitto, con un trasporto e una partecipazione che lasciano attorno al ragazzo una misteriosa aura di ‘macabro’. In seguito, la crescente curiosità della docente Olivia nei confronti del talento controverso di Antoine creerà non solo qualche accesso confronto all’interno del gruppo, ma anche una dinamica relazionale che sfuggirà in un modo o nell’altro di mano a entrambi.
A distanza di dieci anni dalla Palma d’Oro a Cannes per La Classe, il regista francese Laurent Cantet torna sul tema del gruppo e delle sue ‘frizioni’ all’interno di un contesto predefinito e intriso di attriti e generali tensioni sociali. Nuova declinazione del concetto di classe come luogo di studio anche sociale e psicologico, anche L’atelier (letteralmente laboratorio) parte infatti da una dinamica corale per accendere poi il dibattito politico, pubblico, e umano su quelle che sono le inclinazioni e contraddizioni determinate tra individui diversi posti a interagire tra loro, in un ambiente comune.
A differenza de La classe, però, L’atelier sfrutta lo strumento del gruppo solo come pretesto narrativo per allargare e deviare poi la riflessione su una dinamica ben più precisa che riguarda ambizione e talento associati a personalità controverse, in particolare quella del protagonista Antoine. L’interessante scavo psicologico che Cantet conduce lungo tutta la seconda parte del film tra pulsioni razziste e insofferenza verso il prossimo, sembra essere dunque - più che l’atelier in sé - il vero cuore pulsante del film. Peccato solo che le due diverse ‘voci’ dell’opera non risultino perfettamente allineate e integrate, dando vita a un risultato di fatto un po’ troppo eterogeneo per essere del tutto convincente. Ne L’atelier Cantet mescola la scrittura e il suo potenziale creativo con argomenti di ordine sociale, psicologico, emotivo, per farne un ritratto affascinante ma troppo composito e troppo pieno di elementi. E se i dialoghi e gli attori risultano essere, a conti fatti, di livello, è la struttura narrativa che li sostiene a mancare della messa a fuoco necessaria a farne un film coinvolgente e compiuto.