L’Arminuta – Racconto di formazione di una tredicenne “contesa”
“Ogni famiglia è infelice a modo suo”
Una tredicenne (l’Arminuta dell’ottima Sofia Fiore) cresciuta in una famiglia benestante, in una villetta luminosa a due passi dal mare, e nella leggerezza di chi pensa di condurre una vita felice, viene restituita dai genitori adottivi alle sue umili origini. Per la ragazzina, candida e ingenua, sarà uno shock, incapace di spiegarsi perché quella madre – forse “malata” - non vuole più tenerla con sé. La verità sarà lungi dal palesarsi e poi, infine, si rivelerà un boccone assai amaro.
Precipitata, suo malgrado, in un doloroso lutto da elaborare e metabolizzare, l’Arminuta (in dialetto abruzzese colei che ritorna a una terra che non le appartiene più) si vedrà costretta a diventare adulta prima del tempo, a fare i conti con quella sua nuova e umile realtà, con quei fratelli scombinati, con una violenza che non conosce e non approva, e con una madre che non sente sua. Ad accompagnare il suo percorso di formazione e consapevolezza, in particolare, saranno la sorellina Adriana (la dolcissima Carlotta De Leonardis), piena di vita e di affetto da regalare, e il primogenito Vincenzo, che le accorderà ben più di un’attenzione. Ma la transizione da un passato che ancora brucia a quel nuovo/vecchio mondo arriverà solo con il tempo, con la presa di coscienza, con l’epifania di un mondo che non è tutto come sembra e che, anzi, alle volte appare ben più roseo di quello che realmente è.
Basato sull’omonimo bestseller di Donatella Di Pietrantonio, vincitore del Premio Campiello 2017, L’Arminuta di Giuseppe Bonito (Pulce non c’è, 2012; Figli, 2020) è racconto di formazione lieve e cristallino che opera attorno e nell’intimità dell’attrice protagonista per far emergere tutto il fardello d’alienazione di una tredicenne divisa tra passato e presente, tra due mondi, due vite, tanti stati d’animo che si alternano e si susseguono. La luce del “prima” (il mare, la spiaggia, la mamma amorevole che spalma la crema) s’infrange così contro il grigiore del “dopo” (la casa buia, sporca, gli ambienti opachi), e ne riflette il malessere adolescenziale, ne determina la necessità di esercitare la propria acerba maturità per mettere a fuoco presente e passato, verità e illusione, per fare i conti con l idea e l’ideale di famiglia, di un’infelicità che si muove, cambia, muta con lo status sociale, ma che non è necessariamente prerogativa dei meno abbienti.
Nel mezzo, scorrono tutte le pulsioni e rivoluzioni tipiche dell’età, come i primi guizzi amorosi e le resistenze fisiche, che vanno poi a fondersi con la richiesta di aiuto, la necessità di gratificazione, la voglia di dominare una realtà che fa fin troppo male. Giuseppe Bonito centra alla perfezione, anche grazie alla levità e all’armonia dell’ottima protagonista, il cuore emotivo del film, la sospensione esistenziale e l’opporsi strenuo operati dalla sua piccola e grintosa arminuta.
Il film del regista partenopeo scava con sensibilità e fedeltà nelle pieghe emozionali del romanzo della Pietrantonio e ne restituisce l’integrità narrativa, la correttezza esegetica. Di contro, i momenti di raccordo, soprattutto quelli che chiamano in causa la sfera adulta, sono i più deboli, i meno realistici, i meno a fuoco anche dal punto di vista della scrittura. Momenti che restano comunque meno e minori, di fatto non in grado d’intaccare significativamente la portata emotiva e la lucidità emozionale della storia.