Land Of Mine
Le guerre generano mostri, e poco conta se ci troviamo nella parte vincente o perdente, tra chi ha aggredito o tra chi si è difeso. La storia che si racconta in questo film ne è un esempio.
Ci troviamo in Danimarca nel 1945, alla fine della seconda guerra mondiale. Il governo britannico offre ai danesi la possibilità di utilizzare i prigionieri tedeschi per sminare le coste del proprio Paese nelle quali le forze occupanti avevano disseminato più di 1.400.000 mine. Grazie ad un artefizio retorico (definire i prigionieri come “persone arrese volontariamente al nemico”) riuscirono così ad aggirare la Convenzione di Ginevra e destinare 2.600 soldati tedeschi, la maggior parte dei quali ragazzi sotto i diciotto anni, a quel lavoro atroce; più della metà morì o rimase gravemente ferita.
Il film, scritto e diretto dal regista danese Martin Zandvliet, porta quindi in scena una vicenda che, come ammette lui stesso, il suo Paese ha cercato di dimenticare. Nel descrivere l’atroce vicenda ci fornisce dunque un’angolazione differente della storia scritta, come sempre accade, dai vincitori.
Un film coraggioso, dove i soldati tedeschi sono vittime delle ritorsioni della popolazione danese che fino a quel momento avevano trattato da conquistatori. Destinati ad un’attività pericolosissima, vivono come prigionieri, con poco cibo, sbeffeggiati e maltrattati. Sono dodici i ragazzi agli ordini del sergente danese Rasmussen, che proprio all’inizio del film vediamo massacrare di botte un prigioniero tedesco subito dopo la fine della guerra. Dodici ragazzi che vediamo ogni mattina dirigersi verso la spiaggia come una colonia di scout in vacanza. Ma se la guerra genera mostri, la convivenza in situazioni di grande pericolo e grave disagio, sblocca quel quantum di umanità che l’uomo, anche il più terribile, serba dentro di se.
E’ inevitabile, dunque, che tra vittime e carnefice si stabilisca un rapporto di empatia che dirigerà le sorti della storia verso risultati più concilianti. Ma non illudetevi, Zandvliet non ci risparmia nulla, non edulcora sequenze né lima o abbellisce immagini. L’atrocità è sempre in agguato, nascosta sotto la sabbia.
Film corale, alla riuscita del quale, oltre ad una regia sempre attenta a cogliere il dato umano e morale di ciò che si racconta, (il dato e la denuncia storica è sullo sfondo, di fronte ci sono uomini e sentimenti), contribuisce la bravura di tutti i giovani attori che riescono ad imprimere ai loro personaggi, nonostante il terribile contesto in cui sono inseriti, una nota fanciullesca che alleggerisce l’animo e, sentirli programmare il loro futuro una volta tornati in una Patria distrutta e da ricostruire, commuove e colpisce più dello scoppio inaspettato di una mina.