Lady Macbeth, quando la vittima diventa carnefice
Se la Lady Macbeth di Shakespeare si vergognava “d'avere in petto un cuore così bianco”, il che è tutto dire, la protagonista dell’opera d’esordio di William Oldroyd non prova invece alcun rimorso nel possedere un cuore nero come la pece: gli intrighi orchestrati dalla famosa moglie del Re di Scozia sembreranno infatti bazzecole a confronto con le agghiaccianti azioni che compirà Katherine, giovane sposa di un uomo ricco e più anziano di lei. Liberamente tratto da Lady Macbeth del distretto di Mcensk - romanzo breve scritto nel 1865 da Nikolaj Semenovic Leskov e pubblicato lo stesso anno nella rivista Epoch diretta da Fëdor Dostoevskij - Lady Macbeth, che nulla dunque ha a che vedere con l’opera del drammaturgo nato a Stratford-upon-Avon, è un irresistibile e originale noir vittoriano perfettamente riuscito. Il commediografo Oldroyd, considerato fra i maggiori talenti registici del teatro inglese di oggi e già alla guida del London's Young Vic Theatre, sposta l’ambientazione dalle campagne russe a quelle della Gran Bretagna dell’Ottocento per raccontare la trasformazione da donna sottomessa a dark lady della diciassettenne Katherine, una ragazza costretta a vivere rinchiusa nell’isolata villa in cui abita con il marito Alexander e il di lui padre Boris.
Allontanandosi dai canoni del classico dramma in costume dove i personaggi femminili sono solitamente destinati a soccombere alle rigide norme sociali dell’epoca, il filmmaker anglosassone disegna un’eroina passionale, ribelle, amorale, crudele e glaciale, eppure, nonostante ciò, l’empatia che si verrà a creare tra Katherine e il pubblico ha dell’incredibile: d’altronde, lo si sa, il male ha il suo fascino. Sì, perché se inizialmente è impossibile non tifare per quella ragazzotta dal viso tondo obbligata a denudarsi davanti a un marito sessualmente inadeguato, con il lento passare dei minuti - troppo tardi ormai per mutare drasticamente il coinvolgimento emotivo creatosi con Katherine - lo spettatore scoprirà la vera natura della protagonista: un mix esplosivo di Anna Karenina, Lady Chatterley e Madame Bovary in chiave pulp. La metamorfosi che convertirà la docile vittima in sprezzante carnefice è magistralmente rappresentata grazie a una fenomenale asciuttezza stilistica, priva di fumose forme decorative, e a una solida struttura narrativa esente da sbavature.
In questa storia di feroce vendetta a porte chiuse la grande casa padronale diviene un potente protagonista e, seppure mai visibile dall’esterno, la quasi assenza al suo interno di tappezzerie e comfort, l’incessante scricchiolio dei pavimenti e il continuo dischiudersi degli usci sono tutti elementi che richiamano un luogo in cui ogni movimento è monitorato, proprio come in un carcere. Gli stessi abiti indossati da Katherine, veri indumenti di costrizione, evidenziano quell’idea di prigionia che in lei sarà foriera di comportamenti di inaspettata freddezza e brutalità. E questa sua indomita volontà di mantenere il controllo sulla propria vita, o di modificarne il destino, rende il film di Oldroyd estremamente attuale, tanto che il mantra machiavellico ‘il fine giustifica i mezzi’ vi è portato volutamente all’eccesso in una sequenza di scene molto difficili da dimenticare.
Il cineasta inglese, passando con abilità dall’uso della camera a mano a quella fissa, dona all’opera una notevole fluidità registica che esprime le sue grandi potenzialità nel campo cinematografico. Lady Macbeth, visivamente impeccabile, non funziona però soltanto dal punto di vista tecnico – fotografia, costumi e sceneggiatura ottimi – ma anche da quello artistico: la semi sconosciuta Florence Pugh, notata da Oldroyd in The Falling di Carol Morley, stupisce infatti per la sua splendida interpretazione; nel difficile ruolo dello stalliere amante di Katherine il cantante-attore Cosmo Jarvis convince pienamente la platea; Naomi Ackie, nei panni della domestica di colore, trasmette egregiamente quel senso di inferiorità legato alla crudeltà razziale e alle differenze di classe. Non era facile portare sul grande schermo un racconto russo di fine Ottocento, soprattutto se dal lavoro di Leskov avevano già tratto ispirazione sia l’immenso compositore Dmitri Dmitriyevich Shostakovich - che ne prese spunto per realizzare nel 1934 la sua seconda opera con cui, oltre a una seria condanna da parte di Stalin, ottenne anche uno strepitoso successo - , che il compianto Andrzej Wajda con Lady Macbeth Siberiana: ma con il suo sorprendente lungometraggio il londinese Oldroyd ha comunque centrato il bersaglio.
“E’ fatto”, asserisce perentoria Katherine a un certo momento del film, e a chi ben conosce Macbeth di William Shakespeare quelle brevi parole risuoneranno come l’inizio di una tempesta senza fine...