La verità sta in cielo
Prima di aprire con quel 22 Giugno del 1983 in cui la quindicenne cittadina vaticana e figlia di un messo pontificio Emanuela Orlandi scomparve dal centro di Roma segnando l’inizio di uno dei più clamorosi casi irrisolti mai accaduti in Italia, è un aforisma dello scrittore e poeta irlandese Oscar Wilde ad introdurre una storia che, come avrebbe detto il suo collega William Shakespeare, è così incredibilmente vera da sembrare impossibile.
La storia che non ha mai finito di far parlare trasmissioni televisive e cronache nazionali in oltre trent’anni e che il veterano Roberto Faenza – autore, tra l’altro, di Jona che visse nella balena e Un giorno questo dolore ti sarà utile – racconta sul grande schermo attraverso le due piste seguite da Maria alias Maya Sansa, inviata in Italia da un’emittente inglese e, soprattutto, dalla Raffaella Notariale incarnata da Valentina Lodovini.
La Raffaella Notariale che, giornalista Rai, sembra ricavare notizie attendibili tramite gli incontri con la Sabrina Mainardi che fu prima compagna del calciatore Bruno Giordano, poi dell’Enrico De Pedis detto Renatino, boss della banda della Magliana che meglio di ogni altro seppe gestire il malaffare della capitale.
Il Renatino De Pedis che passava con disinvoltura dalle bische ai quartieri alti e qui in possesso del volto del Riccardo Scamarcio che, a proposito della combriccola più temuta della città eterna, già interpretò il Nero in Romanzo criminale di Michele Placido; come pure la sua citata dolce metà manifesta i connotati della Greta Scarano che fu la Angelina moglie di Scrocchiazeppi nella serie tv derivata proprio dal lungometraggio tratto dal testo di Giancarlo De Cataldo.
Man mano che vediamo i due ascoltare di frequente le canzoni di Toto Cutugno, appare evidente che quella “batteria” tanto mitizzata dai media era composta, in realtà, da non più di una decina di “accattoni e straccioni”, come li ha definiti il Massimo Carminati che ha ispirato il già menzionato Nero e che è finito al centro dell’inchiesta “Mafia capitale”.
Perché, nel paese delle menzogne e dove, per arrivare alla verità, bisogna incontrare tanti bugiardi, pare fossero i cosiddetti “Testaccini” a tirare le fila della malavita e dei suoi intrecci con i palazzi del potere, a loro volta affiliati ad un network delinquenziale talmente variegato da non poter fare a meno di rendere ancor più intricata la vicenda legata al rapimento orlandiano.
Vicenda che, mentre si afferma che il clamore è meglio del silenzio e ci si chiede se la nostra indennità sia la prova che esiste la giustizia, viene racchiusa in circa novantaquattro minuti di visione destinati a tirare in ballo anche il John con le fattezze di Shel Shapiro, ex frontman dei Rokes, e costruiti in maniera non molto dissimile da determinati lavori del, troppe volte esageratamente e gratuitamente, criticato Renzo Martinelli.
In quanto, proprio come nelle operazioni messe in piedi dal cineasta lombardo, se da un lato le prove degli attori finiscono per risultare non sempre convincenti, dall’altro l’agglomerato di interessanti informazioni emerse dal grande lavoro di ricerca e documentazione centra il proprio obiettivo di catturare l’attenzione dello spettatore, riservandogli anche crudezza quando necessario (si pensi solo alla violenta uccisione di Semeraro) e dispensandogli un elaborato non eccelso e, di sicuro, non privo di difetti, ma che si lascia seguire senza annoiare, grazie alla sua sufficiente capacità di coinvolgimento.