La stanza delle meraviglie: 6 gradi di separazione da "Figli di un dio minore"

Todd Haynes è uno di quei registi in grado di stupire, non tanto per la visionarietà, o per il “bayem” potremmo dire, ma per la sua capacità di prenderti in contropiede. Le sue sono sempre storie intime, forti, ma narrate in mille modi diversi, mai banali.
Questo non significa che sia scevro da difetti, uno su tutti la gestione del ritmo.

La Stanza delle Meraviglie è un libro illustrato di Brian Selznick (quello di Hugo Cabret per intenderci) che lui stesso ha adattato per il grande schermo.
Sono le storie parallele di Ben, un dodicenne nel 1977, e Rose, una bambina nel ’27, ambedue affetti da sordità e determinati ha fuggire dalla loro piccola città verso New York per cercare le loro radici.
Un mondo nuovo, un sogno da inseguire, una necessità impellente, questi i motori dei due ragazzi uniti dal filo sottile del loro deficit, e non solo, a dispetto degli anni di distanza.

Potrebbe essere un romanzo di formazione un po’ sui generis, ma allo stesso tempo un viaggio favolistico, solo che Haynes decide di percorrere una strada impervia: il film muto.
Prendendo spunto dalla fine degli anni venti, il mondo di Rose, e sfruttando la sordità dei due protagonisti, il regista californiano inserisce all’interno dell’opera un’ampia parentesi scandita dalla sola musica, in cui i due ragazzi si orientano nella Grande Mela.
Una scelta coraggiosa, fatta essenzialmente per farci calare nel loro mondo, e per omaggiare quel periodo in cui l’espressività contava più di mille parole.
Ma il vero rischio che si è preso Haynes non è stato questo, quanto mantenere all’adattamento dell’opera, lo stesso autore per cui risulta più difficile fare sacrifici.

Le due ore del film sono decisamente troppe per raccontare l’avventura di Ben e Rose, acuite dalla scelta “muta”; troppe le sequenze protratte oltre il dovuto (su tutte l’inseguimento nel museo) o ridondanti, che finiscono per appesantire oltre modo un film che si sarebbe dovuto concentrare maggiormente si sui sentimenti, ma anche sull’azione.
I 90 minuti avrebbero giovato e consentito anche agli attori di concentrare la loro performance. Julianne Moore, ormai attrice feticcio del regista, è la giusta spalla per i giovani Oakes Fegley e Millicent Simmonds che hanno sulle spalle il gravoso compito di sostenere l’impalcatura dell’opera, spesso senza parlare.

La Stanza delle Meraviglie non ha quindi quel magico alone di Hugo Cabret (ma c’era un certo Scorsese a dirigere), né la potenza eversiva di Carol, ma rimane un film che tocca abilmente le corde dei sentimenti…lentamente.