La sindrome di Antonio

Il racconto dei dubbi e dei malesseri esistenziali dell’anima di chi decide di misurarsi con il mondo.

Dedicato al compianto asso del teatro Giorgio Albertazzi, che vi compare brevemente per la sua ultima esperienza al servizio del grande schermo nei panni di Klingsor, pittore silente speranzoso nel ritorno della compagna scomparsa da anni, il primo lungometraggio cinematografico diretto dal conduttore radiotelevisivo Claudio Rossi Massimi – partendo da un suo romanzo – prende il via dalla figura di Gino, con le fattezze di Remo Girone.

Infatti, è attraverso la sua voce narrante che seguiamo il ricordo del viaggio alla volta di Atene intrapreso a bordo di una Cinquecento, nel Settembre del 1970, dall’amico Antonio alias Biagio Iacovelli, a proposito di cui il regista osserva: “Il protagonista de La sindrome di Antonio è un giovane ingenuo ma saggio che trascina la sua gioventù alla ricerca di un materiale che oggi è pressoché sconosciuto: gli ideali”. Del resto, è alla ricerca della caverna e dei luoghi che hanno ispirato Platone che parte con pochi soldi in tasca lasciando emergere lo spirito anticonformista e combattivo di una generazione (quella del ‘68) che voleva cambiare il mondo, ma che pare non sia riuscita neppure a cambiare se stessa.

E, mentre alla radio si parla della morte del chitarrista Jimi Hendrix, è una colonna sonora ricca di successi degli anni Sessanta – da Proud Mary a Blowin’ in the wind, passando per Eloise e When a man loves a woman – ad accompagnare la sua impresa on the road immersa negli splendidi paesaggi della Grecia dei colonnelli, nel corso della quale viene affiancato dalla tanto bella quanto divertente Maria, cui concede anima e corpo Queralt Badalamenti. Impresa che gli consente, inoltre, di effettuare incontri con curiosi personaggi quali un ristoratore in vena di filosofia, una folle donna impegnata a porre indovinelli sul senso della vita e il proprietario della locanda dove alloggia, rispettivamente interpretati da Moni Ovadia, Chiara Gensini ed un esilarante Antonio Catania. Tutti destinati ad incrementare il valido cast al servizio di un’operazione che, senza rinunciare ad una frecciatina verbale all’Italia delle bombe nel “decennio del piombo”, corre l’unico rischio di apparire a lungo andare stancante a causa della fin troppo conservata matrice letteraria di partenza, testimoniata dall’onnipresenza dei dialoghi scanditi da lenti ritmi di narrazione.

Perché, per il resto, man mano che viene ribadito che nella vita, a volte, non dire è meglio che dire, non solo il comparto tecnico-artistico risulta talmente curato da consentire quasi di respirare l’aria dell’epoca inscenata usufruendo di pochi mezzi, ma a rappresentare il maggiore pregio dell’insieme provvede una certa efficace atmosfera di solitudine e malinconia che sembrano trasparire anche dalle diverse figure tirate in ballo.