La pelle dell'orso
Con un’apertura immersa nel folklore di un villaggio nel cuore delle Dolomiti degli anni Cinquanta, è al compianto cineasta padovano Carlo Mazzacurati che è dedicato La pelle dell’orso, il primo lungometraggio di finzione diretto dal documentarista Marco Segato, tratto dall'omonimo romanzo di Matteo Righetto e sceneggiato dal regista stesso insieme all’Enzo Monteleone autore di El Alamein – La linea di fuoco e al protagonista Marco”Il toro”Paolini.
Protagonista di nome Pietro e che, consumato dalla solitudine e dal vino, lavora alle dipendenze di Crepaz alias Paolo Pierobon e porta avanti un rapporto aspro e difficile con il figlio Domenico, ovvero Leonardo Mason, tanto che i lunghi silenzi li hanno praticamente trasformati in due estranei. Fino al momento in cui, a seguito dell’attacco alla valle – con tanto di uccisione di una vacca in una stalla – da parte di un vecchio e feroce orso denominato diaol, il diavolo, l’uomo non decide di accettare la sfida di eliminarlo in cambio di denaro, gettandosi nell’impresa affiancato proprio dal ragazzino. Segnando l’inizio di un viaggio al contempo fisico e spirituale che, in fin dei conti, non può fare a meno di lasciar intravedere un certo retrogusto da pellicola eco-vengeance (riguardante gli animali assassini), pur puntando tutt’altro che a rientrare nel filone che ci ha regalato, tra gli altri, Grizzly – L’orso che uccide di William Girdler.
Perché, nonostante la presenza di una pericolosa vipera in agguato e il ritrovamento di una carcassa di cervo, in questo caso non si mira all’intrattenimento da brivido a base di corpi sbranati, bensì al concepimento di un racconto di formazione volto ad evidenziare la grandezza del piccolo uomo mentre affronta la grande bestia. Un racconto di formazione che, guardante anche alle pagine di Mark Twain, Jack London ed Ernest Hemingway, pare costruirsi, in ogni caso, su un’impresa quasi intendibile in qualità di rilettura tra le montagne della caccia al pescecane attuata da Roy Scheider, Richard Dreyfuss e Robert Shaw nel corso della seconda parte dell’intramontabile Lo squalo di Steven Spielberg.
Man mano che la oltre ora e mezza di visione, efficacemente sorretta da un cast comprendente anche la Lucia Mascino di Fräulein: Una fiaba d’inverno, procede attraverso lenti ritmi di narrazione individuando un elemento decisamente affascinante, oltretutto, nella spesso cupa atmosfera sfiorante quella di determinati film horror. Sebbene è nell’ambito del cinema avventuroso che rimanga il tutto, tecnicamente confezionato con professionalità da Segato, il quale precisa giustamente: “Rispetto al libro volevo disegnare un mondo più duro e complesso e trovare un equilibrio tra il racconto di genere, le suggestioni fantastiche e l’intimità di un rapporto difficile tra padre e figlio”.