La pazza gioia
In un angolo bucolico della campagna toscana, convivono le storie diverse di un gruppo di esistenze accomunate da problemi psichiatrici, in qualche modo incapaci di vivere come tutti i loro simili, ovvero imbrigliati nelle regole del mondo esterno. Tra loro c’è anche Beatrice Morandini Valdirana (Valeria Bruni Tedeschi), donna sofisticata e piacente, aggrappata a un’idea di lusso e ricchezza che non esiste più o che forse non è mai esistita. Una donna sostenuta da un incrollabile desiderio di guardare al passato come se fosse il futuro, immaginare il proprio tempo smarrito come tempo ancora da venire. Ostile all’idea di quel mondo e fondamentalmente chiusa nella propria inarrivabile pazza gioia, a segnare un punto di svolta in quella vita di comunità sarà per la bionda e avvenente signora l’arrivo di Donatella Morelli (Micaela Ramazzotti), ragazza minuta e solitaria che non riesce a fare i conti con il dolore del fallimento, come madre e forse anche come figlia. Il loro incontro fortuito porterà nella vita dell’una e dell’altra una nuova spinta, rinnovata verve legata all’idea di mutare la propria problematicità in qualcosa di costruttivo, divenendo forse per la prima volta nella vita punto di riferimento per qualcun altro.
Dopo l’incursione nell’attualità e nelle discriminanti sociali de Il capitale umano Virzì torna ai toni più caldi e drammatici dei rapporti relazionali e famigliari. Da un’idea nata proprio sul set del film precedente e vestita addosso ai profili delle due attrici protagoniste (Valeria Bruni Tedeschi e Micaela Ramazzotti), La pazza gioia indaga quel labile confine che nelle nostre convenzioni societarie separa la normalità presunta dalla pazzia probabile. Stati che corrono lungo un confine sottilissimo e che vengono determinati in base alla capacità o meno degli individui di muoversi all’interno di schemi, strutture, comportamenti in qualche modo ‘controllati’.
L’amicizia tra l’esuberante Beatrice Valdirana, animata da una pazza e incontenibile gioia e dall’idea di vecchi fasti cui non riesce a rinunciare, e la fragile Donatella, per sempre segnata da una maternità difficile e interrotta, sono la componente umana (in fondo solo un altro tipo di capitale umano) che il regista toscano sfrutta per parlare di quelle svolte che la vita ci riserva, generando dei fuori pista che mai e poi mai avremmo considerato. E in fondo questa coppia di donne (rivisitazione forse involontaria e moderna di un duetto in stile Thelma & Louise) è proprio una di quelle che del fuori pista ha fatto il suo fulcro emotivo, il suo cavallo di battaglia. La loro fuga, evasione estemporanea da una condizione di cattività, alla ricerca dei propri sogni (il lusso di una vita oramai andata o l’immagine di un figlio ‘perso’ per strada), diventerà un on the road lungo i confini della vita, con un piede fuori e uno dentro quel cono d’ombra spesso generato da aspettative divenute illusioni, sogni mutati in fantasmi.
Con un film forse meno perfetto di altri ma in qualche modo altrettanto ‘sincero’ e ‘di pancia’, e con il sostegno in fase di scrittura di una penna brillante come quella di Fracesca Archibugi, Virzì affonda dunque ancora una volta (come era accaduto in maniera totale e totalizzante ne La prima cosa bella) nel cuore dell’emozione e dell’emotività della Vita, toccando argomenti e delineando personaggi che hanno tutte le fragilità e debolezze del complesso sistema umano. Le due protagoniste non potrebbero essere più giuste nel loro ruolo, a incarnare due volti diversi della stessa imperfezione, ma il vero scossone emotivo giace nel tepore del finale, in quell’onda anomala di commozione che stordisce e travolge come solo l’amore di una madre sa e può fare.