La macchinazione
Cosa accadde veramente quel 2 Novembre del 1975 in cui, a soli cinquantatré anni, il popolare cineasta Pier Paolo Pasolini perse la vita, a quanto pare ucciso dall’allora giovanissimo Giuseppe Pelosi, che era solito intrattenersi in sua compagnia?
Con il primo incarnato dal piuttosto somigliante Massimo Ranieri e il secondo in possesso dei connotati del sorprendente esordiente Alessandro Sardelli, prendendo le distanze da precedenti lavori quali Pasolini, un delitto italiano (1995) di Marco Tullio Giordana e Pasolini (2014) di Abel Ferrara prova a risponderci il David Grieco che, autore di Evilenko (2004), già ebbe modo di occuparsi del regista di Accattone (1961) e I racconti di Canterbury (1972) tramite il documentario Borgata America (2002).
Infatti, oltre a concedere non poco spazio al rapporto tra i due, tenta in maniera evidente di cancellare del tutto dalla memoria dello spettatore la definizione “omicidio a sfondo sessuale” sempre attribuita alla fine di colui che, oltre ad essere impegnato nella stesura del romanzo Petrolio, atto di accusa contro il potere politico ed economico dell’epoca, subì proprio in quel periodo il furto del negativo di Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975), che avrebbe voluto concludere con l’immagine di molte bandiere rosse.
Il crudissimo film in cui recitò anche il Paolo Bonacelli qui coinvolto nel breve ruolo di un vescovo; man mano che, tra nostalgicamente affisse locandine di classici e cult del calibro di Faccia a faccia (1967), Ultimo tango a Parigi (1972) e Queimada (1969) e prima e dopo destinati ad alternarsi in più occasioni, la macchina da presa s’immerge nella romanità di periferia di metà anni Settanta, in cui stava germogliando la famigerata Banda della Magliana.
Romanità comprendente, tra gli altri, l’Antonio Pinna e il Sergio che, rispettivamente interpretati da Libero De Rienzo e Matteo Taranto, finiscono proprio per rientrare nella combriccola dei diretti responsabili dell’uccisione di colui che odiava la parola speranza e che era convinto che ti tradisce solo chi ti ama.
Colui che non considerava la povertà un male perché, prevedendo la globalizzazione, aveva intuito come le persone stessero perdendo le proprie identità a causa dell’arricchimento; sfoderando qui tutta la sua pessimista ma reale visione del mondo attraverso una inventata intervista con il giornalista francese Moreau, cui concede anima e corpo il François-Xavier Demaison de Le vacanze del piccolo Nicolas (2014).
Mentre Roberto Citran veste i panni dell’ambiguo Giorgio Steimetz nel quale il protagonista s’imbatte durante la sua personale indagine sulle trame della corruzione politica, nonché autore di un libro di denuncia contro l’Eugenio Cefis dell’ENI, della Montedison e della P2.
Ed è proprio la cinematograficamente inedita ricostruzione atta a tirare in ballo servizi segreti, attivisti del Movimento Sociale Italiano e loschi legami tra potere e criminalità a rivelarsi l’ingrediente in grado (più di ogni altro) di rendere sufficientemente coinvolgente ed interessante la oltre ora e cinquanta di visione... approdante al feroce pestaggio e che, non priva di pecche a cominciare dalle non sempre convincenti prove sfoggiate da alcuni attori, scorre via senza troppa difficoltà.