La luce sugli oceani
C’è sempre un motivo per cui si sceglie di raccontare una storia al cinema, ma non sempre il motivo (in questo caso un bel romanzo storico) è valore sufficiente ad assicurare un buon risultato.
L’americano Derek Cianfrance aveva esordito nel 2013 con Blue Valentine, film che aveva riscosso un buon successo e che seguiva l’ascesa (in breve) e la discesa (nel dettaglio) di una giovane coppia di sposi - Tom e Isabel (rispettivamente interpretati dai bravi Ryan Gosling e Michelle Williams), evidenziando la sospensione di quel tempo cruciale in cui il sentimento un tempo saldo inizia a sgretolarsi, e si assiste impotenti al suo lento e inesorabile declino, aggrappati - per lenire il dolore - al ricordo della felicità che fu.
Con l’opera seconda Come un tuono, la profondità della narrazione trovava invece il suo limite in un film estremamente lungo e denso di eventi, che allo sviluppo verticale della trama gli preferiva invece quello orizzontale.
Con La luce sugli oceani (presentato in concorso a Venezia 73), adattamento per il cinema dell’omonimo romanzo d’esordio di M.L. Stedman, Derek Cianfrance mette ancora più in luce la difficoltà di scavare e raccordare in profondità i suoi protagonisti, complice senz’altro la scelta non troppo felice di portare su grande schermo una storia “datata”: nei fatti, nei tempi, ma anche nelle intenzioni.
La coppia di protagonisti (interpretati da Michael Fassbender e Alicia Vikander) attraversa la via crucis di una prova esistenziale e affettiva estenuante, in una geografia e un tempo storici (costa australiana, all’indomani della Prima Guerra Mondiale) dove gli spazi e i silenzi già assai profondi vengono portati al loro estremo dalla reclusione in un luogo simbolo per eccellenza di isolamento e solitudine: la vita sull’isolotto del Faro. Una Gita al faro che però gita non è davvero, ma è piuttosto l’anticamera di un dramma sordo, dove il dolore della perdita e l’ombra della morte cercano il loro riscatto attraverso scelte e ‘soluzioni’ che poi condizioneranno in maniera ancora più devastante le vite dei protagonisti: un reduce di guerra e la sua giovane moglie.
Guerra, isolamento, lutto della perdita, sono solo alcuni dei molti elementi che il film tira in ballo, lasciando però che la girandola drammatica abbia la meglio sulla capacità di contestualizzare in maniera esaustiva le scelte fatte. La velocità/quantità delle svolte all’interno di un’opera dai toni drammatici è infatti sempre inversamente proporzionale alla capacità comunicativa che quelle svolte, alla lunga, avranno sull’economia dell’opera.
Catapultati nel loro mondo di tragedia e solitudine, i due cuori protagonisti mancheranno più volte di cogliere e “significare” quella luce reale e simbolica, quella speranza che dal faro dovrebbe avvolgere di sicurezza e protezione anche loro e la loro vita ‘minimalista’. Tutt’altro, invece, tanto per la storia quanto per l’opera terza di Cianfrance che nonostante una splendida fotografia e il supporto di due bravi protagonisti, assume il riverbero piuttosto flebile di un drammone storico troppo distante e troppo schematico per coinvolgere davvero gli occhi, e soprattutto il cuore.