La grande rabbia

Le ventiquattro ore che cambieranno per sempre la vita dei due giovani amici Benny e Matteo: il primo, adottato in fasce da una coppia di veneti poi trasferitisi a Roma, possiede i neri connotati di Miguel Angel Gobbo Diaz e, rimasto orfano e solo, è diventato campione di combattimenti a mani nude clandestini ed ha appena finito di scontare il carcere; il secondo, interpretato dal Maurizio Matteo Merli figlio del Maurizio compianto eroe dei nostri poliziotteschi che furono, lavora in un pub e vive con il fratello minore Stefano alias Edoardo Purgatori, poliziotto, e il padre pensionato, ex operatore ecologico incarnato dal veterano Flavio Bucci, i quali lo mantengono anche se lui non lo ammette.

Ventiquattro ore che, a partire dal bianco e nero in cui i circa ottantatré minuti di visione sono stati concepiti, non possono fare a meno di richiamare alla memoria L’odio (1995) di Mathieu Kassovitz, probabile fonte principale d’ispirazione per il regista Claudio Fragasso e per l’inseparabile sceneggiatrice (e compagna di vita) Rossella Drudi, che tornano a lavoro a tre anni dalla fallimentare escursione nella commedia balneare rappresentata dal pessimo Operazione vacanze (2012).

Ventiquattro ore nel corso delle quali i due progettano una vita insieme dopo l’ultimo incontro in cui Benny decide di investire tutti i suoi risparmi; man mano che una capitale tricolore mutata nell’arco degli anni – sia nelle periferie che negli strati più segreti del centro storico – fa da sfondo alla loro storia di amicizia, atipica soprattutto a causa della differenza di colore della pelle.

Tanto che, coinvolto in una breve e quasi surreale apparizione, è lo stesso Fragasso a rimarcarla sfoggiando un monologo atto a racchiudere proprio il significato della grande rabbia del titolo; esplosa, inoltre, nei tragici fatti che riguardarono nel 2014 i contrasti razziali nel quartiere di Tor Sapienza, dei quali, all’interno del film, vengono riportate autentiche immagini di manifestazioni e residenti intervistati.

Perché, senza lasciar individuare una precisa presa di posizione politica, l’intento dell’operazione è proprio quello di testimoniare come l’ignoranza emergente dalle intolleranze nei confronti dell’integrazione sociale possa spesso arrivare a colpire coloro che sono in realtà innocenti nel mucchio di delinquenza di matrice extracomunitaria.

Anche se lo fa in maniera piuttosto semplice, senza risparmiare difetti legati a non sempre convincenti attori di contorno e una certa tendenza ad infiacchirsi narrativamente in più occasioni... ma sfoggiando una messa in scena che, tenendo in considerazione il basso budget avuto a disposizione, non risulta disprezzabile e spinge a chiudere un occhio sugli aspetti meno riusciti.