La fille de Brest
Il potere e la longa manus delle case farmaceutiche, il ‘business’ della salute, la logica talvolta controversa del sistema sanitario rischio-beneficio, e gli effetti collaterali dei farmaci in circolazione che vengono prescritti per ‘curare’ rischiando invece a volte di rivelarsi tutt’altro, in qualche caso perfino fatali. Parte da una storia realmente accaduta in Francia e poi raccontata nell’omonimo romanzo La fille de Brest, la regista Emmanulle Bercot per affrontare con grande trasporto emotivo e lucidità narrativa il tema del conflitto di interessi di un sistema sanitario sempre in bilico tra etica e guadagno, assistenza e sfruttamento.
La bravissima Sidse Babett Knudsen è la protagonista Iréne Frachon, la Fille de Brest (ragazza di Brest) del titolo, ovvero la pneumologa di Brest che nel 2007 individuò una stretta correlazione tra l’uso del Mediator (un farmaco utilizzato soprattutto per perdere peso e spesso impiegato da pazienti diabetici o in sovrappeso) e le numerose morti legate a patologie e malfunzionamenti polmonari e cardiaci derivanti proprio dall’uso del suddetto farmaco. Un farmaco presente in commercio da tanti anni, largamente impiegato, e di cui non si era mai ventilata prima d’allora una possibile e così grave tossicità - in seguito poi valutata con una casistica di morti da capogiro, e pari a un numero enorme compreso tra le 500 e le 1000 unità. Per fare chiarezza sulla questione, la giovane e determinatissima dottoressa metterà in campo tutte le sue conoscenze, e chiederà l’aiuto di un team di esperti (capitanato dal ricercatore Antoine Le Bihan di Benoit Magimel) svolgendo insieme a loro uno studio specifico sul farmaco e sui suoi effetti collaterali. Neanche a dirlo, la sua battaglia - nonostante una verità inquietante ed evidente a portata di mano - si rivelerà ben più ardua del previsto, e prima di far valere le sue ragioni, Iréne dovrà combattere contro tutti. Contro il potere della casa farmaceutica proprietaria del farmaco in primis, ma anche contro l’ostilità del sistema di controllo poco incline a opporsi alle case farmaceutiche, e infine con le conseguenze che la sua crociata porterà, ostracizzandola in breve tempo dalla comunità medica di amici e colleghi per la posta altissima messa in gioco. Uno scontro ad armi impari delineato nella classica battaglia di Davide (il ‘piccolo’ medico di grande coscienza) contro Golia (il business del denaro applicato alla salute).
La Francia conferma ancora una volta la sua abilità di muovere l’occhio del cinema nei risvolti del tessuto sociale più oscuro. Dopo film come Due giorni, una notte dei Dardenne, La loi du marchè di Stéphane Brizé, anche l’attrice-regista Emanulle Bercot realizza infatti una pellicola di valore, incentrata e incredibilmente a fuoco sul fronte sociale. Mirabilmente scritto, diretto e recitato, La fille de Brest racconta una pagina di attualità contemporanea facendo luce sulla dinamica piuttosto inquietante di stretta connivenza tra case farmaceutiche, strutture sanitarie, e organi di vigilanza che all’occorrenza operano in favore del business anziché a supporto dei cittadini, ovvero dei pazienti. Il film della Bercot descrive questo sistema in tutte le sue più sottili ambiguità, aderendo da vicino e con trasporto alle motivazioni sacrosante della protagonista Irène e della sua battaglia. Là dove le persone diventano numeri, dove una condizione clinica non è altro che un’equazione matematica che risponde al calcolo tra rischio e beneficio,
La fille de Brest rivendica l’eroismo di Irène Frachon nel riportare il fuoco sulle persone, sulla loro sofferenza, riaffermando il concetto secondo cui anche una sola morte merita di essere valutata e analizzata con il rispetto dovuto. Anche una sola morte, se imputabile alle attività dirette o indirette di qualcuno, va reclamata e riscattata. Un caso mirabile di coscienza umana e professionale che mette in luce un gravissimo esempio di mala-sanità, di case farmaceutiche ‘assassine’, di medici e operatori sanitari non abbastanza coscienziosi da denunciare le falle di un sistema. Una battaglia lunga ed estenuante che proprio per l’alto valore etico e simbolico di cui si fa portavoce coinvolge e commuove, e dove l’insperata vittoria rappresenta un piccolo segno positivo verso la speranza, e il senso giustizia. Verità scomode e omissioni ‘criminali’ si confrontano e gareggiano fino all’ultimo in un film necessario dove il valore dei contenuti trova sfogo perfetto nella qualità della forma.