La casa di famiglia: quattro sotto un tetto
Uno, con le fattezze del Lino Guanciale de I peggiori, è il casinaro Alex, gli altri tre sono i suoi fratelli Oreste, Giacinto e Fanny, ovvero Stefano Fresi, Libero De Rienzo e Matilde Gioli, cresciuti insieme a lui nella ricchezza in una bella villa di famiglia in campagna. Sotto la regia del debuttante dietro la macchina da presa Augusto Fornari, attore con alle spalle una lunga carriera consumata tra teatro, piccolo e grande schermo, la loro odissea comincia nel momento in cui, proprio per risolvere un grosso problema economico del primo, decidono tutti e quattro insieme di vendere quell’abitazione paterna che ne ha segnate le vite; senza immaginare che, il giorno successivo alla firma dal notaio, il genitore Sergio, interpretato dal veterano Luigi Diberti e in coma da molti anni, si risvegli improvvisamente. Situazione ulteriormente complicata dal fatto che, ai fini di una buona ripresa, i medici reputano fondamentale che l’uomo torni alla sua esistenza quotidiana circondato dall’affetto dei figli, dai ricordi e dagli oggetti a lui più cari; costringendo il quartetto, di conseguenza, a fare di tutto per recuperare al più presto mobili, cimeli di famiglia e, addirittura, l’amato cane, fingendo che la casa non sia mai stata venduta.
Ed è la sempreverde I heard it through the grapevine di Marvin Gaye ad introdurre la circa ora e mezza di visione, su cui il regista precisa: “Abbiamo utilizzato la commedia perché ci sembra il genere più adatto a mettere in luce, con la dovuta leggerezza, il ‘meccanismo’ ma soprattutto la sostanza d’amore che pervade i rapporti familiari e, in definitiva, ogni rapporto umano. Poiché ogni atto compiuto, anche quello che sembra il più sconsiderato, è sempre e prima di tutto un atto d’amore”. Circa ora e mezza di visione che lascia tranquillamente intuire la provenienza del suo autore dal teatro a causa della tendenza a costruirsi a sketch; man mano che, tra nostalgia, incomprensioni ed imprevisti, fa la sua entrata in scena anche Nicoletta Romanoff nei panni della badante russa Masha, piuttosto sopra le righe.
Un personaggio, quest’ultimo, in realtà abbastanza inutile allo svolgimento della vicenda, purtroppo costruita su una sceneggiatura piuttosto debole, soprattutto a causa delle poche idee che, in maniera evidente, la costituiscono. Perché, se escludiamo una ristretta manciata di gag come quella riguardante un busto di Benito Mussolini o l’altra in cui sono coinvolti da un lato lo spregevole Zaffarano alias Toni Fornari soprannominato “Bavosa” e dall’altro dei poliziotti in perlustrazione, si ride veramente poco dinanzi a La casa di famiglia.
Con un tenore generale nient’affatto distante da quello di una fiction da prima serata televisiva e un obbligatorio interrogativo: se i protagonisti sono tutti romani, per quale motivo la loro sorella sfoggia un chiaro accento milanese?