La Casa delle Estati Lontane
La casa delle estati lontane è l’opera prima della sceneggiatrice Shirel Amitay, presentata in anteprima al Festival dei Diritti Umani della Triennale di Milano. Il film è una commedia drammatica ambientata nel 1995 in Israele: solo due anni prima il ministro israeliano Yitzhak Rabin aveva stretto la mano a Yasser Arafat, capo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, siglando i cosiddetti “Accordi di Oslo” al cospetto di Bill Clinton. La speranza di sopprimere ogni forma di conflitto armato per approdare a un orizzonte di pace sembrava quasi possibile. Poi arrivò la tragica notte del 4 novembre 1995 in cui Rabin venne ucciso a Tel Aviv per mano di un estremista, mentre partecipava a un comizio pubblico. Ogni pensiero di riappacificazione tra i popoli cadde all’istante.
La casa delle estati lontane mette in scena gli accordi e disaccordi di tre sorelle, ognuna con un carattere e una personalità differente, per parlare in realtà della conflittualità universale che trova origine nel fallimento stesso delle parole. Tra Cali, Darel e Asia i problemi insorgono quando rifiutano di fermarsi, sedersi e ascoltare le ragioni dell’altro, non solamente le proprie, sul fatto che sia giusto o meno vendere la casa dell’infanzia. Allo stesso modo, il rifiuto del dialogo che accomuna le frange più radicali degli israeliani e dei palestinesi è uno strumento di disfacimento per due popolazioni che non vogliono disperare e cedere così all’idea di un futuro immutabile.
Funziona il gioco surrealista della regista di inserire nella storia l’intervento fantasmatico dei genitori hippy delle tre ragazze. Questa epifania soprannaturale non ha in sé alcun carattere perturbante e sconvolgente, come invece solitamente può apparire al cinema una vecchia casa infestata di spiriti. Anzi, la loro presenza nell’abitazione è fonte di conforto e di perpetuo confronto tra le protagoniste. Interessante anche il punto di vista adottato, in quanto questa famiglia atipica è per metà israeliana e per l’altra metà francese. Il loro essere errabonde e il non possedere radici rigorose fa sì che le sorelle abbiano una visione d’insieme dello squilibrio geo-politico in atto nel Medio Oriente. D’altro canto, come fa notare Cali al vecchio amico di famiglia Mafous, queste donne non hanno mai potuto sentirsi interamente né di una nazionalità né tantomeno dell’altra. Tale dissidio interiore si riflette pure nella lingua, visto che l’ebraico è pienamente padroneggiato solo dalla sorella maggiore Darel: l’unica a sentirsi davvero parte integrante di quella terra.
Brave le tre attrici principali Géraldine Nakache, Yaël Abecassis e Judith Chemla, dirette in modo impeccabile da una regista che sa come sfumare il dramma con momenti semiseri. E in questa coproduzione franco-israeliana spicca il nome dell’italianissimo Pippo Delbono, nei panni del defunto padre bohémien.