La buona uscita

Per il suo primo lungometraggio Enrico Iannaccone confeziona un’opera intrisa di atteggiamenti, dialoghi e allestimenti più propriamente teatrali che cinematografici. 
La buona uscita si qualifica come finzione onnipresente indirizzata al pubblico, concepita alla stregua di commedia grottesca che sprofonda nei toni cupi di una beffarda contemporaneità da tempo sotto gli occhi di tutti.

I personaggi che gravitano intorno alla storia sono rappresentati come membri di un misero palcoscenico che prendono parte a un progetto spettacolare impregnato di violenza, omertà e desiderio di libertà. Nessuno è davvero innocente. Neppure la vittima sacrificale che il ricco borghese Marco Macaluso sceglie, attuando una vera e propria strategia del ragno, per preservare la sua immacolata fedina penale. Perché anche il capro espiatorio di questa triste farsa ha da guadagnarci dai benefici di una “buona uscita”. Tutt’al più c’è chi, come Lucrezia, decide di mettersi alla prova, di tentare nuove invalicabili strade, di reinventarsi provando a prendere sul serio un matrimonio illogico per una natura irrequieta come la sua. Ma, la dimensione del cambiamento che attraversa la donna è ingenua, falsa e dannosa: le marionette devono essere lungimiranti e rimanere sempre fedeli a loro stesse, solo così possono dare un significato alla propria esistenza.

Il film si riduce a dialoghi fatui esibiti baroccamente in una sorta di moto perpetuo che non tiene conto delle ragioni del ritmo. In questa prospettiva, il discorrere delle condizioni climatiche può benissimo convivere con le argomentazioni esistenzialistiche dei protagonisti. Sarebbe stato il caso di lasciare la porta aperta a una maggiore scarnità stilistica, mettendo all’angolo quel narcisismo d’autore che, con ottusità spaziale, cerca di entrare in ogni inquadratura.

Purtroppo, l’originalità di Iannaccone non riesce a seminare dubbi: il suo sguardo ancorato a una ferrea legge di campi/controcampi, non provoca reali inquietudini perdendosi in un ipnotico andirivieni di luoghi suggestivi. Esemplare è la sperimentazione attuata nella sequenza del sogno di Lucrezia. Rigettata la personalità cartolinesca del Golfo di Napoli, la città partenopea prova a tingersi di una crudeltà metafisica, ma il discreto fascino della resa fotografica non le permette di fare il grande salto nel regno del simbolismo.