Knight of Cups

La realtà non interessa più a nessuno.

Siamo come nuvole che vanno e vengono. “Per sempre” non esiste.

“C’era una volta un principe, un cavaliere che cercava una perla"...la risposta del visionario Malick a La grande bellezza parte (con una grandissima apertura) da un’allegoria cristiana del 1678, The Pilgrim’s Progress, fusa con The Hymn of the Pearl, a sua volta commisto con A Tale of the Western Exile di Suhrawardi  e si dipana attraverso otto carte dei tarocchi come demarcazione del percorso narrativo, otto boe che dovrebbero guidare lo spettatore attraverso un viaggio sperimental-esistenziale che, purtroppo, non conduce da nessuna parte. Lo stesso titolo del film si ispira ad una carta dei tarocchi, il cavaliere di coppe citato dalla voce off in apertura mentre il regista, più che il Fellini citato a piene mani da Sorrentino, sembra inseguire (forse inconsapevolmente) modelli ben più alti, come Proust (La matinée dai principi di Guermantes, splendido capitolo della Recherche) ed il Visconti di Morte a Venezia.

Deve comunque far riflettere questo corso e ricorso storico secondo il quale quando un regista americano acquisisce fama mondiale e raggiunge/supera l’età di Jep Gambardella...il suo modello di riferimento sembra essere sempre l’opulenta Europa, quella più kitsch e sfavillante quanto algida e vuota.

In Knight of Cups, come il titolo stesso del film suggerisce, siamo di fronte ad una parabola contemporanea basata su un’antica ed epica impresa che vede (teoricamente) il protagonista, il sempre bravissimo (qui schiacciato da un ruolo bidimensionale e flaccido) Christian Bale interpretare un “James Franco” che a sua volta incarna lo sceneggiatore più bello, “dannato” e depresso di Hollywood (peccato che ci fossero già arrivati nel 2007 con il fantastico, autoironico e guascone Hank Moody di Californication, di cui il “Rick” di Malick scimmiotta persino l’abito e la capigliatura), circondato da donne bellissime ma vuoto dentro per un insuperabile lutto subìto e mai del tutto superato. Tocco di classe al negativo, la perpetua voce off del protagonista che ci fa venire voglia di sopprimerlo/vederlo divorato da un mostro marino carnivoro uscito dalla piscina, per il suo bene ed anche un po’ per il nostro, dopo circa 10 minuti di visione.

Il solitamente geniale Malick è caduto di peso nella maledizione di Terry Gilliam e ci regala, probabilmente,  quello che è il suo film più brutto in assoluto: pretenzioso, onanistico e decisamente fuori bersaglio. La questione e vale per entrambi i registi succitati è semplice: esiste un solo Darren Aronofsky ed anche lui, talvolta, non va a segno...imponendoci una quantità di cliché che la metà basta.

Siamo di fronte ad un’accozzaglia confusa (“innamorato dell’amore”? Please!), probabilmente comprensibile ed apprezzabile soltanto sotto LSD, di citazioni e controcitazioni intellettualistiche con un Banderas avvizzito ed attempato che avrebbe fatto meglio a rimanere imprigionato per sempre negli spot italiani dei frollini (come in un’ideale e quella sì che sarebbe stata geniale, puntata della Zona del crepuscolo), alcune veramente trite e ritrite come il celeberrimo adagio di Blaise Pascal “Se il naso di Cleopatra fosse stato più corto, sarebbe cambiata l’intera faccia della terra” e quando un 73enne dell’Illinois arriva a citare modelli così alti mentre gira la scena del party in piscina...il disastro è dietro l’angolo ed anche tutto intorno.

Ma dopo 40’ di supplizio, in cui gli elementi più belli, quelli che rimangono in mente, sono la locandina originale del film, un paio di fugaci primi piani della perfetta Freida Pinto (cui verrà dato ampio spazio in seguito, in tutto il suo splendore) ed una ripresa subacquea di un cane visto dalla prospettiva della palla che cerca di catturare...sullo schermo appare lei, la divina Cate Blanchett e sembra quasi che Malick lo sapesse, quanto fosse brutto e pretenzioso il suo film perché è proprio lei a fare del suo meglio (come sempre) per salvarlo. Scalza, senza trucco, bella come una dea, protagonista assoluta del quarto episodio, intitolato “Il giudizio”.

Qua e là, piccoli momenti di gloria: come al 50esimo minuto delle migliori partite di calcio, quando tutto riparte di slancio dopo la fine primo tempo, il regista (in modo forse autobiografico) ci rivela come ci si sente davvero quando si diventa anziani.

L’unica figura maschile significativa, in questo film sugli uomini girato da un regista maschio che riprende le donne (incarnazioni di occasioni mancate, storie finite, possibilità inespresse e rimorsi costanti per le occasioni sprecate) è quella del padre, interpretato mirabilmente dal veterano di Hollywood Brian Dennehy (classe 1938 e talento da vendere. Uno degli ultimi sopravvissuti del cinema americano di qualità) che sembra incarnare rabbiosamente le frustrazioni e la rassegnazione esistenziale del regista nonché i rimpianti di una generazione che ha mancato il bersaglio. L’episodio che lo vede protagonista insieme a Wes Bentley (American Beauty, Hunger Games) nei panni, rispettivamente, del padre e del fratello di Rick (Christian Bale) si chiama, non a caso, “L’impiccato”, esattamente come questo film che, presentato addirittura in Concorso al Festival di Berlino nel 2015 dopo ben due anni di post-produzione, delude profondamente lo spettatore, presentandosi con immense potenzialità supportate da una fotografia eccezionale e da una serie di star di prima grandezza ma, proprio come le carte dei tarocchi, rimanendo bidimensionale sino alla fine. Da un regista di culto come Malick è invece lecito e doveroso esigere la profondità.

Menzione d’onore estetica, ed in un cast di donne bellissime come questo era particolarmente ardua, alla favolosa trentenne Teresa Mary Palmer, protagonista assoluta dell’episodio VI (“La somma sacerdotessa”) il cui charme ipnotico e la cui bellezza dirompente riescono quasi ad illuderci che si stia vedendo un grandissimo film. È nata una nuova Sienna Miller.

In conclusione, una cosa è certa: se le città di Los Angeles e Las Vegas incarnano un’abbondanza ipertrofica di bellezza sprecata e vuota, allora il senso di nausea che quest’opera instilla si può definire un risultato raggiunto. Panta rei, impermanenza, nel bene e nel male tutto scorre (come le onde del mare di questo “Sea of Death”)  e come l’avvizzita e cupa Elaine Stritch rivela ad un ancora molto affascinante Richard Gere nello struggente Autumn in New York : “Siamo giovani per quanto? Cinque minuti?”.

È questo che Terrence Malick, classe 1943, sembra volerci ossessivamente ricordare. Con risultati incerti ma pregevoli intenzioni.