Juste la fin du monde

Louis (Gaspard Ulliel), uno scrittore di successo, sta tornando dopo dodici anni di assenza nel luogo dove è nato, a casa dalla sua famiglia. Ma l’occasione della visita non è quella di una lieta novella. Sta per morire e vuole consegnare il fardello della notizia ai suoi parenti; sua madre Martine (Nathalie Baye), sua sorella Suzanne (Léa Seydoux), suo fratello Antoine (Vincent Cassel) e la compagna di quest’ultimo Catherine (Marion Cotillard). 

Non c’è un momento giusto – e nemmeno uno sbagliato – per dare voce a una notizia del genere, soprattutto con persone che non vedi da tempo e che anche se sono la tua famiglia appaiono come un’ombra informe di estranei, spettri ripiombati a parole nel circolo disfunzionale dei ricordi. L’insidia delle incomprensioni, dei rimproveri, degli errori e delle omissioni, e soprattutto delle ferite emotive mai rimarginate prenderà infatti quasi subito il sopravvento su quella riunione di famiglia (vontrieriana nella sua corrosività), togliendo voce al vero e lasciando spazio solo al grido di dolore, al rinfaccio, a un tentativo di recupero che nonostante tutto non andrà a buon fine. Un grido interiore, sofferto, inghiottito e sfogato nelle visioni di un giovane uomo di poco più di trent’anni anni posto di fronte allo spettro della morte e allo spettro ancora più grande della propria solitudine. Di fronte a una famiglia incapace sia di ascoltare sia di amare. Piccole madeleine proustiane (il materasso condiviso con il suo Pierre) di una nuova memoria galleggiano indistinte in quel tentativo fallito di rivelazione, trovando infine spazio di confronto (e conforto)sempre e solo nella propria solitudine più profonda.

L’enfant prodige (oggi appena ventisettenne) del cinema canadese è tornato. Adattando per il grande schermo l’omonima pièce teatrale di Jean-Luc Lagarce, un progetto a lungo pensato con l’amica e confidente Anne Dorval (straordinaria interprete di alcuni suoi film), e utilizzando per la prima volta un cast di grandi star, Xavier Dolan realizza un altro di quei lavori destinati a restare nella storia, per tutta una serie di buoni motivi. 

Da un lato il progetto di adattamento (il primo della sua già nutrita filmografia, per il resto basata tutta su storie da lui stesso sceneggiate) costringe il prodigioso cineasta a una struttura forzata, a una compressione in uno schema narrativo precostituito che influenza negativamente e in qualche modo inficia il genio suo creativo, quello di un artista abituato a trascinare e trascinarsi senza paletti nel vortice emotivo delle proprie idee. Dall’altra, però, è la sua straordinaria cifra stilistica che viaggia su un’immaginazione visiva straordinaria, i ralenti, le impennate musicali, le inquadrature in un formato immersivo che quasi deforma il punto di vista e inquadra i protagonisti da una prossimità soffocante, a permettere a Dolan di avvicinare un’opera tanto complessa, di matrice teatrale e dal linguaggio vernacolare, basata tutta sul confronto dialettico quasi sempre a due, che si muove mantenendo il protagonista sempre in scena e in alternata rotazione con gli altri. 

Juste la fin du monde, viaggia quindi su due binari paralleli, mostrando i suoi limiti nella parte strettamente narrativa, e volando quando il “dogma Dolan” prende vita, infilando una serie di intuizioni, transizioni, musiche che impennano ritmo e cuore dell’opera. Ma se pure qui Dolan convince meno nel suo complesso, emerge comunque il turbamento sotterraneo di un cinema meta-narrativo che racconta l’orrore vicino, quello che si genera nelle frizioni più crudeli, più dolorose perché parla di sangue che scorre dal proprio sangue, dal proprio corpo. 

Una doppia morte va in scena allineata nei ricordi destabilizzanti di risentimenti e incomprensioni macerati nel tempo e nella lontananza, e che fanno perdere equilibrio, come pugni e schiaffi assestati con incredibile maestria. Il cucù che perde la sua ‘voce’. Un’opera per certi versi meno dolaniana, meno riuscita delle precedenti e (inferiore) sicuramente al bellissimo Mommy (dove c’era un equilibrio di parti e registri magistrale), ma voce senz’altro potente di un cinema di nuovissima generazione più unico che raro, che annienta e spiazza, creando una cesura con tutto ciò che si era visto prima, e forse anche con quello che si vedrà dopo. Perché e il segno inconfondibile di un poeta che elabora in proprio ogni emozione e parola, rigettandola su schermo con una forza incredibile, una forza che pure stando seduti in poltrona ha la capacità di far vacillare. Poi ci si riprende. Per un po’. Almeno fino al prossimo film!