Julieta

Il (fu) geniale maestro del cinema iberico Pedro Almodovar firma la sua ventesima regia, probabilmente la più etero di tutta la sua filmografia (ad eccezione di un’unica, breve sequenza di battute, peraltro semplicemente accennate) regalandoci un lungometraggio che facciamo molta fatica a ritenere degno di essere addirittura inserito in Concorso a Cannes 2016. Tre ragioni per vederlo: la meravigliosa Adriana Ugarte, la favolosa e qui addirittura mefistofelica Rossy de Palma e l’impeccabile fotografia.

Il più famoso regista iberico vivente si ispira (piuttosto liberamente, per sua stessa ammissione) a tre racconti brevi della grande autrice canadese Alice Munro, Nobel per la Letteratura nel 2013: Chance, Soon e Silence, di cui ha comprato i diritti nel 2009 e, (solo) nelle sue intenzioni, intende evidenziarne filmicamente i legami tra le figure femminili delle tre generazioni rappresentate sullo schermo. 
Terzo lungometraggio tratto da un’opera non in lingua spagnola, dopo Carne tremula (1997) e La pelle che abito (2011), prima di intitolarsi come il nome della protagonista, Julieta, avrebbe dovuto emblematicamente chiamarsi Silenzio, come uno dei tre racconti di cui sarebbe la libera trasposizione ma il titolo sarebbe andato in battimento con il nuovo, omonimo, film di Martin Scorsese, attualmente in post-produzione, che vede protagonisti Adam Driver e Liam Neeson. Se a tutto ciò aggiungete che la protagonista sarebbe dovuta essere, addirittura, un mostro sacro come Meryl Streep (il film sarebbe dovuto essere il debutto di Almodovar nella cinematografia di lingua inglese) che avrebbe dovuto interpretare se stessa a 20, 40 e 60 anni…capirete bene come il risultato finale sia “solo leggermente” distante dall’obiettivo prefissato.

Ciò che più innervosisce di questo film, magistralmente diretto peraltro, è il fatto che proprio le figure femminili su cui è integralmente incentrato (gli uomini, evento eccezionale per Almodovar, sono soltanto di sfondo) non riescono, tranne rari istanti di assoluta bellezza che vanno doverosamente riconosciuti, a sfuggire ad una bidimensionalità forzata che ne vanifica le intenzioni. Sembra, infatti, che esse (almeno nel doppiaggio italiano) recitino sotto l’effetto di potenti sostanze psicotrope dalle quali risultano immuni soltanto la giovanissima Priscilla Delgado che interpreta Antía (la figlia di Julieta) adolescente e la sempre favolosa Rossy de Palma, nei panni della vigorosa governante Marian. Il resto è un banale ed assai prevedibile melò in cui il silenzio, che dovrebbe dominare ambienti e persone nelle intenzioni originali di Alice Munro rappresenta, invece, il momento per tirare il fiato (mai abbastanza) dalle trite banalità da romanzetto rosa che ci vengono propinate ad ogni piè sospinto.

Emma Suárez che interpreta Julieta sessantenne ha rivelato che l’impiego di due attrici per differenti età della vita è un tributo a Quell’oscuro oggetto del desiderio, capolavoro di Luis Buñuel del 1977. Sfortunatamente, la similitudine tra le due pellicole termina qui. Non basta, infatti, l’assoluta perfezione fisica della 31enne Adriana Ugarte, probabilmente la più bella attrice televisiva iberica della sua generazione, a salvare un film che andrebbe ripetutamente premiato per le astronomiche buone intenzioni e stroncato allo stesso tempo per il poco significativo risultato finale. Due chicche in tal senso: la pettinatura della Suárez in apertura di pellicola ricorda moltissimo quella della nostra Margherita Buy in Le fate ignoranti (interpretava Antonia) e persino la scena dell’incidente stradale, che evitiamo di spoilerarvi, ha la stessa, identica inquadratura di quella regalataci da Ferzan Ozpetek nel suo succitato gioiello del 2001. Sarà un caso?

Più che dalle parti del grandissimo cinema d’autore europeo, ci troviamo qui a passeggiare tra i topoi narrativi della talentosa Patricia Highsmith (in modo squisitamente pirandelliano, uno dei protagonisti sembra addirittura autodenunciarsi a riguardo), di cui Almodovar deve aver particolarmente ammirato quello Sconosciuti in treno (suo primo romanzo, del 1950), talmente bello da aver ispirato L’altro uomo di Alfred Hitchcock, uscito l’anno successivo, quasi un instant movie. La conferma di ciò è proprio nelle parole del regista che dichiara: “Mi piacciono i treni, anche giocattoli, che appaiono nelle pellicole. Ho sempre sognato di girare per davvero un film su un treno. Di tutti i mezzi di trasporto che costituiscono l’iconografia della cinematografia […] il treno è il mio preferito. […] Le scene che più mi sono rimaste impresse, per la maggior parte appartengono ad Hitchcock (La signora scompare, L’altro uomo, Intrigo internazionale) ed a Fritz Lang (La bestia umana). […] Ho ideato la sceneggiatura di Julieta pensando alle sequenze in Un treno di notte. In un luogo così significativo e metaforico [la scena del cervo e dell’uomo che scompare è, probabilmente, la più bella del film], Julieta entra in contatto con i due poli dell’esistenza umana: la morte e la vita”.