Jojo Rabbit: con ironia ed intelligenza si può narrare tutto, anche la Gioventù hitleriana
Vincitore del Premio del Pubblico al Toronto film Festival, e fresco delle sei candidature agli Oscar 2020 tra cui quella di Miglior Film, Jojo Rabbit, del regista neozelandese Taika Waititi, approda finalmente nelle sale italiane. Dopo il successo ottenuto con Thor: Ragnarok (2017), il filmmaker di origini maori cambia drasticamente genere regalando agli spettatori una black commedy surreale, ironica e maledettamente intelligente. Sì, perché nonostante alcune critiche non proprio positive, oggi ridimensionate grazie al cosiddetto “effetto nomination”, Waititi mette in scena con arguzia e con una giusta dose di sarcasmo sia uno dei periodi più bui del secolo passato che il suo artefice: nazismo e Adolf Hitler.
Jojo (Roman Griffin Davis), un bambino di dieci anni nella Germania nazista ormai prossima alla sconfitta, cresciuto dalla sola madre (Scarlett Johansson, qui in nomination come Miglior Attrice Non Protagonista), trova conforto nel suo amico immaginario Adolf Hitler (interpretato dal regista stesso, Taika Waititi). L’ingenuo patriottismo di Jojo verrà però messo a dura prova quando incontrerà una ragazzina (Thomasin McKenzie) che minerà le sue granitiche convinzioni sul mondo, costringendolo ad affrontare una realtà a lui sconosciuta e ponendolo di fronte alle sue profonde paure…
In un’epoca come la nostra, in cui il revisionismo storico sembra andare sempre più a braccetto con il dannoso negazionismo e la “memoria” viene vista con sospetto, il film di Waititi ha il grande pregio di riuscire a catturare l’attenzione di qualsiasi tipo di pubblico, al di là di età, sesso, religione e, perché no, orientamento politico. Questa favola nera, liberamente tratta dal romanzo Il cielo in gabbia di Christine Leunens, mostra quanto sia stato facile per la propaganda di allora far presa sui giovani attraverso la creazione dell’organizzazione Hitlerjugend (Gioventù hitleriana), e lo fa inondando il film di cascate di irresistibile ironia a cui nessuno potrà sottrarsi.
Inizialmente rappresentata in maniera bonaria, la figura del Führer - dipinto come una macchietta poiché proiezione mentale distorta di un fanciullo - subisce una trasformazione inquietante man mano che il protagonista prenderà coscienza dell’orrore della guerra che, a pari passo con la forza dell’amore, segnerà per sempre il suo passaggio all’adolescenza. Un racconto di formazione, quindi, quello portato sul grande schermo dal regista, una storia che non pone in primo piano l’olocausto, ma che trasuda di ammonimenti, anche se colmi di humor, sulla pericolosità dell’odio un tanto al chilo.
Il tono un po’ naif, l’ottimo ritmo, la sceneggiatura impeccabile, i dialoghi brillanti, i colori pastello, i personaggi alla Wes Anderson e la splendida recitazione dell’intero cast – Sam Rockwell, nei panni del Capitano Klenzendorf, dimostra ancora una volta la sua immensa bravura – rendono Jojo Rabbit, nella corsa agli Oscar, il perfetto piccolo avversario a sorpresa di lungometraggi quali quelli di Tarantino, Scorsese, Philipps, Mendes e Bong Joon-ho.
“E' vero che gli ebrei hanno le corna, leggono la mente, sono attratti da cose luccicanti, dormono appesi a testa in giù come i pipistrelli e hanno la pelle della punta del pisello tagliata che viene usata come tappi per le orecchie?”. Questa domanda posta con stupore da Jojo a una bellissima ragazza ebrea è una delle tante battute che si ascolteranno durante i 108 minuti di proiezione. Ecco, in quelle parole risiede l’essenza del film: la radice del razzismo attecchisce per il sentito dire.