Instant Family: dove c'è amore, c'è famiglia.
Instant Family dovrebbe essere visto nelle scuole.
Perché racconta una storia vera che parla di amore e di famiglia, affrontando in maniera schietta, commovente e ironica la tragicomica esperienza del diventare genitori.
Prendendo spunto dalla vicenda realmente vissuta dal regista Sean Anders, che ha adottato personalmente tre fratelli ispanici, il film racconta di Pete e Ellie, i bravissimi Mark Wahlberg e Rose Byrne, lui alla terza pellicola con il regista, che, pur essendo innamorati e affiatati, decidono di adottare un figlio, o più di uno, per colmare il vuoto che entrambi avvertono nella vita di coppia. Si iscrivono dunque ad un corso per diventare genitori affidatari, tenuto da Tig Notaro e dalla sempre eccelsa Octavia Spencer, premio Oscar per The Help, al quale sembra sia dedicata una chicca finale del film, ed iniziano un percorso che gli farà conoscere nuovi amici. C'è la coppia fortemente cattolica che non riesce ad avere figli, c'è la coppia gay in cui un uomo bianco ed uno di colore anelano a diventare genitori, c'è la donna single che vuole un figlio da seguire per tutto quel che riguarda gli sport e ci sono altre coppie desiderose di adottare uno o più figli.
Il messaggio importantissimo che offre Sanders è infatti quello secondo cui, per ogni bambino o ragazzo che ha sofferto, che è stato abbandonato quando non addirittura abusato o maltrattato, l'amore è l'unica cosa che conta, e non importa da dove esso provenga.
Con il suo Instant Family il regista ci fa scoprire una serie di realtà più e meno note e assai interessanti, nel bene e nel male: sembra infatti che gli adolescenti siano i meno papabili per via del carattere ribelle: i bambini sono più facili da plasmare mentre una quindicenne scontrosa, Dio ce ne scampi e liberi.
Ma perché queste persone fanno parte di una lista di adozione? Perché i genitori non sono stati capaci di assicurare loro una vita dignitosa. C'è chi li ha "semplicemente" abbandonati, chi li ha fatti crescere tra i fumi delle metanfetamine, chi li lasciava da soli tutto il giorno. Le situazioni di degrado sono innumerevoli e dolorose. Alla base, principalmente c'è il problema della tossicodipendenza, evidenziato anche nel recente Beautiful Boy - nel quale Steve Carrell si occupa strenuamente del figlio drogato - sui cui titoli di coda la tossicodipendenza viene descritta come la seconda causa di morte negli Stati Uniti, per le persone sotto i cinquant'anni.
C'è poi la questione dell'integrazione dei ragazzi adottati nel sistema; ecco allora che, se una ragazza giovane e carina non è adeguatamente seguita, può finire nelle grinfie di un bidello con tendenze pedofile che la esorta ad inviargli foto di lei nuda.
Ci sono i capricci insostenibili e gli incidenti con relativa corsa in ospedale, ci sono i pianti, di grandi e piccoli, e c'è il senso di inadeguatezza dei genitori adottivi. Gli ostacoli sono tanti ma si sa, “le cose importanti sono difficili”.
Poi ci sono i processi, con i genitori biologici e quelli adottivi e tutta la confusione, la tensione, l'umiliazione e il dolore che ne conseguono. Ma anche il lieto fine non manca, ed è una vittoria per tutti, giudice compreso.
Sono tante le tematiche che Sean Anders affronta nel suo film e lo fa con un tatto veramente invidiabile e con uno stile accattivante e fluido al tempo stesso. Non sfugge tuttavia la polemica, non troppo velata ad essere sinceri, nei confronti della fecondazione assistita: con tutti i giovani e meno giovani bisognosi di una famiglia, c'è davvero bisogno di spendere migliaia di dollari o euro per una cosa così poco naturale, quando si potrebbe donare tanto amore a chi rischia di passare l'infanzia in una struttura asettica e l'adolescenza in strada?
Reticenza a parte nei confronti di una pratica che resta e resterà sempre discutibile, tutto è ammantato dal semplice desiderio di raccontare l'esperienza che, seppure con fatica e lacrime, ha cambiato l'esistenza al regista e ai suoi tre figli, arricchendola dell'amore che mancava.
Ci si commuove a più riprese per il rapporto che a poco a poco viene a crearsi nella nuova famiglia e si ride delle buffe sedute cui prendono parte i potenziali genitori, delle continue gaffe del protagonista, del personaggio esplosivo di nonna Sandy, interpretata dalla strepitosa Margot Martindale e dell'altra nonna stramba, cui dà il volto la mitica Julie Hagerty del'Aereo più pazzo del mondo. Ci si sorprende, ad esempio con il cammeo finale che, ovviamente, non sveleremo. E si ammira la bravura dei tre figli adottivi interpretati da Isabela Moner, che è anche la cantante del brano dei titoli di coda, Gustavo Quiroz, visto con Mark Wahlberg anche in Pain & Gain: muscoli e denaro, e la piccola Julianna Gamiz.
Un gran bel cast per una storia vera che affronta numerose questioni: tutte attuali, molte ancora ostiche, altre ricche di messaggi positivi, il cui principale è senz'altro quello secondo cui dovunque ci sia amore, c'è famiglia. Non importa che l'amore arrivi da una coppia eterosessuale, omosessuale o da una donna single.
L'amore è la chiave di tutto. Lo dice anche la canzone degli Starship che chiude il film, Nothing's gonna stop us now: “And we can build this thing together, stand this stormy weather, nothing's gonna stop us now / and if this world runs out of lovers, we'll still have each other, nothing's gonna stop us now”.