Insidious: L’ultima chiave, i dolori della giovane Rainier
È vero che la paura e il dolore sono il pane dei demoni?
Se, sotto la regia dello sceneggiatore dell’intera saga Leigh Whannell, già Insidious 3 – L’inizio aveva provveduto nel 2015 a fornire un antefatto alle vicende raccontate cinque e due anni prima in Insidious e Oltre i confini del male – Insidious 2, entrambi diretti da James Wan, questo quarto capitolo sembra continuare a cavalcare la strada del prequel, nel chiaro tentativo di portare ancora una volta in scena il personaggio della sensitiva Elise Rainier, deceduta nel capostipite.
Sensitiva manifestante nuovamente i connotati della Lin Shaye di Tutti pazzi per Mary, ma della quale apprendiamo le origini a cominciare dal New Mexico del 1953, man mano che la narrazione si alterna di continuo tra il passato e la California del 2010, nel periodo precedente ai terrificanti fatti in cui vennero coinvolti i coniugi Lambert che ebbero i volti di Patrick Wilson e Rose Byrne. Quindi, non solo veniamo a conoscenza della sua infanzia e adolescenza alle prese con un padre piuttosto violento nella casa in cui scoprì i propri poteri, ma anche del fatto che all’interno della stessa abitazione vive il Ted Garza alias Kirk Acevedo che chiede il suo aiuto e quello dei due acchiappafantasmi Tucker e Specs, sempre interpretati da Angus Sampson e dal citato Whannell.
Acchiappafantasmi cui, come di consueto, viene affidata la spruzzata d’ironia dell’operazione, che arriva a tirare in ballo anche il veterano Bruce Davison di Willard e i topi nei panni del fratello della protagonista, oltretutto padre delle giovani Imogen e Melissa, ovvero Caitlin Gerard e Spencer Locke. Protagonista che, però, appare decisamente poco somigliante al suo corrispettivo adolescenziale affidato alla televisiva Hana Hayes, tanto che ciò non può fare a meno di rappresentare la principale pecca di Insidious: L’ultima chiave.
Perché, per il resto, in mezzo a cupe atmosfere ed immancabile ricorso all’utilizzo del sonoro per far balzare lo spettatore dalla poltrona, la formula sostanzialmente rimane la stessa che ha caratterizzato i primi tre episodi del franchise, non priva neppure di lenta evoluzione degli eventi e progressiva emersione di indizi. Quindi, il nuovo arrivato dietro la macchina da presa Adam Robitel – attore in 2001 maniacs e regista di The taking – si limita soltanto ad inscenare senza troppa fantasia l’esile script mirato unicamente a tenere in piedi una macchina cinematografica horror cattura-denaro e che, con ogni probabilità, lascia soddisfatti soltanto i fan irriducibili.
E, sebbene il demone dalle fattezze scheletriche degli ultimi minuti di visione possieda un certo macabro fascino, qualcuno potrà sicuramente riconoscervi una certa somiglianza con determinati infetti zombeschi dello spagnolo [Rec].
Niente di nuovo, dunque, nell’al di qua.