In guerra per amore

È al compianto maestro della Settima arte tricolore Ettore Scola che è dedicata la seconda fatica cinematografica del Pierfrancesco Diliberto meglio conosciuto come Pif, a tre anni dal convincente debutto La mafia uccide solo d’estate, del 2013, anch’esso sceneggiato insieme a Michele Astori e Marco Martani.
Il Pierfrancesco Diliberto impegnato in questo caso a vestire nella New York del 1943 i panni di Arturo Giammarresi, umile e squattrinato lavapiatti palermitano emigrato e che vive la sua travagliata storia d’amore con Flora alias Miriam Leone, che lo ama ma è promessa in sposa al figlio di un importante boss della Grande mela. Situazione che potrebbe cambiare in suo favore soltanto ottenendo il sì dal padre della donna, il quale è residente in un paesino della Sicilia che il giovane ha un unico modo per raggiungere: arruolarsi nell’esercito americano, prossimo allo sbarco nell’isola.

Ed è con l’Andrea Di Stefano regista di Escobar calato nella divisa del tenente Philip Catelli che, in un’Italia in preda al Fascismo, prende forma una quasi ora e quaranta di visione che non può fare a meno di apparire in qualità di rilettura pifiana dell’acclamato La vita è bella di Roberto Benigni; tanto più che viene proposta anche una evidente variante della mitica sequenza in cui abbiamo la traduzione falsata (stavolta di ciò che dicono al soldato, non di quel che dice lui).

Ma, tra non vedente utilizzato per avvertire lanci di bombe (ed altri pericoli in arrivo) e vicende di un ragazzino a fare da contorno, l’insieme – pur non privo di qualche lodevole accortezza tecnico-artistica – non fatica a lasciar emergere presto i connotati di quella che sembra quasi una fiction corredata di tutti i necessari ingredienti (studiati a tavolino) da destinare al meno esigente pubblico televisivo.
Una fiction piuttosto piatta dal punto di vista narrativo e che pare dimenticare strada facendo tutte le storie degli altri personaggi tirati in ballo, tanto da arrivare a rendere quasi irrilevante perfino quella d’amore principale.

Mentre la mancanza generale di verve è ulteriormente alimentata da battute difficilmente divertenti (“Voi siete lieutenant, io sono nullatenent”, tanto per citarne una) e il protagonista – alle prese anche con una gag a base di asino – appare quasi più irritante del già citato “toscanaccio” nel voler rifare a tutti i costi Charlie Chaplin (con tanto di baffetto).

Per approdare, però, ad un tutt’altro che banale epilogo dai toni altamente apocalittici che, accompagnato in maniera magistrale dalle musiche di Santi Pulvirenti e forte di un memorabile monologo sfoderato dal Don Calò incarnato da un Maurizio Marchetti da David di Donatello, si rivela la cosa migliore dell’intera operazione nel trasformarla in una sorta di antefatto del sopra menzionato esordio di Diliberto.
Tanto che lo spettatore assiste ai titoli di coda fornito di pelle d’oca, sebbene consapevole del fatto che siano esclusivamente quegli ultimi minuti a giustificare l’acquisto del biglietto di un elaborato riuscito soltanto in parte.