Il vincente

Pur trattandosi di un lungometraggio d’esordio alla regia, il nome del qui debuttante dietro la macchina da presa Luca Magri non risulta affatto sconosciuto soprattutto nel pubblico dei seguaci irriducibili della cinematografia indipendente tricolore d’inizio terzo millennio, per la quale, oltre a finanziare lo sperimentale Nel cuore della notte (2002) di Primo Giroldini, ha scritto Il solitario (2008) e La casa nel vento dei morti (2012), diretti dal Francesco Campanini che ricopre stavolta il ruolo di produttore esecutivo.
Quest’ultimo, oltretutto, coinvolto qui in qualità di attore, come pure altri elementi provenienti dal secondo dei suoi due film citati; da Nina Torresi a Marco Iannitello, destinati a contornare il giovane e benestante scapolo cui concede anima e corpo lo stesso Magri.

Uno scapolo che ama la vita e il gioco d’azzardo (con il poker in prima linea) e che fa finta di compiacere il padre, stanco di mantenerlo e di risolvere di volta in volta i suoi guai e che, di conseguenza, pretende che prenda parte ad un gruppo terapeutico e che si trovi un lavoro.
Perché, man mano che, sempre più in cerca della vincita facile, il protagonista si unisce a una pittoresca compagnia di balordi, ad essere posta al centro della circa ora e mezza di visione è la ludopatia, ovvero l’incapacità di resistere all’impulso di giocare d’azzardo o fare scommesse, sebbene l’individuo che ne è affetto sia consapevole che ciò conduca a gravi conseguenze.  

Ma, come avvenuto nei sopra menzionati lavori appartenenti alle collaborazioni magriane, è in una evidente atmosfera da noir – accentuata anche dal bianco e nero in cui il tutto è stato girato – che viene immersa la vicenda raccontata, richiamante a tratti ad una certa cinematografia d’oltreoceano risalente agli anni Novanta – da Oliver Stone a Quentin Tarantino – per quanto riguarda la descrizione di determinati personaggi e situazioni e non priva, comunque, di citazioni e omaggi a titoli ancor più vecchi.

Infatti, mentre si parla anche dei James Bond di Timothy Dalton e Sean Connery e qualcosa – sempre a causa delle figure tirate in ballo – ci suggerisce una certa influenza da parte delle pellicole del periodo d’oro di Fernando Di Leo, non mancano schermi su cui scorrono le immagini de La notte dei morti viventi (1968) di George A. Romero e de L’innocente (1976) di Luchino Visconti; prima ancora che una giovane gallerista con le fattezze di Maria Celeste Sellitto faccia la sua entrata nella vita del giocatore, finendo travolta dalla “passione” per le slot machine.

Contribuendo a fornire la indispensabile venatura romantica ad un’opera prima non sempre convincente in fatto di recitazione e che, nell’evolversi lentamente, rischia in diversi momenti di apparire monotona, ma che si lascia guardare tranquillamente soprattutto per il modo veritiero e non eccessivamente banale in cui affronta l’argomento posto al suo centro.