Il Segreto
Quando si decide di lavorare alla trasposizione di un romanzo bisognerebbe avere sempre le idee chiare sul tipo di adattamento da fare, e sul punto di vista che si intende adottare. Inoltre, tanto più il romanzo risulta complesso, inserito in un contesto storico puculiare, animato da linee narrative multiple, e da personaggi sfaccettati, tanto più sarà difficile lavorare alla sceneggiatura e decidere cosa mantenere e cosa tagliare nel delicato passaggio al grande schermo.
Con Il Segreto (The Secret Scripture), l’irlandese Jim Sheridan (Nel nome del padre, The Boxer, Brothers) manca del tutto il suo obiettivo e trasforma la trasposizione de Il segreto a firma di Sebastian Barry (romanzo nominato anche per il Man Booker Prize) in un film incompleto e confusionario, incapace di tendere al lirismo originario del romanzo.
La storia è quella della bella e volitiva Rose - Roseanne McNulty (Rooney Mara e Vanessa Redgrave rispettivamente nella versione giovane e anziana), che in un piccolo villaggio dell’Irlanda anni ‘50 – causa la sua bellezza e la conseguente attrattiva esercitata sull’universo maschile – verrà ostracizzata dalla comunità e poi reclusa in un ospedale psichiatrico, dove trascorrerà i successivi cinquanta anni. Un tempo lunghissimo, alimentato dallo sconforto per quel destino così infausto, e sfogato nelle pagine di un diario al quale confiderà tutti i suoi drammi e segreti più intimi. La morte precoce del marito, le forti ‘avances’ del parroco invaghitosi perdutamente di lei (Theo James), la perdita del figlio avvenuta quando era già reclusa tra le mura del ‘manicomio’. La scoperta del diario riaprirà poi il vaso di pandora di quell’esistenza sfortunata, inducendo lo psichiatra incaricato del ‘caso’ (Eric Bana) a fare chiarezza sulla storia della donna, tentando di ricucire insieme le memorie di Rose al filo dei suoi tanti scritti.
Una storia di ingiurie, perdite e ‘ricongiungimenti’ che si svolge sullo sfondo di un’Irlanda in subbuglio, ma che nel film di Jim Sheridan si risolve nell’accanimento ingiustificato di una comunità contro una donna, sostanzialmente rea di essere bella e di ‘carattere’. All’origine dell’insuccesso del film ci sono senz’altro un adattamento e un montaggio davvero troppo modesti, e così mal gestiti da rendere rapsodico il flusso cronologico degli eventi (ritratti nell’alternanza temporale tra tempo presente e tempo passato, la Rose anziana e quella giovane), e una mescolanza dei personaggi totalmente priva di coesione e unitarietà narrative, ma anche di transizioni che rendano il susseguirsi di eventi graduale e funzionale. Il dolore e il lutto di una donna dalla vita spezzata per sempre rappresentano dunque solo un’idea, ovvero tutto il poco che resta del romanzo di Sebastian Barry. Un’idea mal interiorizzata e mal gestita nella trasformazione a film, e dove mancano le sottigliezze, le sfumature, le contestualizzazioni necessarie, e tutto ciò che di norma in un’opera filmica costituisce il substrato e il significante capaci di trasformare azioni e personaggi in storie coinvolgenti ed emozioni concrete.