Il ritratto negato: l'ultimo film di Wajda è un omaggio a un pittore schiacciato dal comunismo
Sono tanti i film di Wajda che resteranno non realizzati nel suo sterminato archivio. Sceneggiature abbandonate, progetti che sono a volte arrivati a un passo dal primo ciak, ma che sono restati come spettri, sospesi in una non esistenza che non vedrà mai la luce. Nessun regista intraprende un progetto sapendo che quello è l'ultimo della propria vita, ed è facile per chi resta trovare nell'ultimo lavoro di un regista una specie di sintesi. Eppure nell'ultimo film di Andrzej Wajda c'è qualcosa che lo lega in maniera evidente con il suo inizio. Subito dopo il primo lungometraggio di debutto, Generazione (Pokolenie, 1954), Wajda realizza un cortometraggio di 14 minuti, intitolato Vado verso il sole (Ide do slonca), un breve documentario dedicato all'opera dello scultore Xawery Dunikowski. Questa breve opera poco conosciuta è uno studio sulle proprietà della luce sull'opera d'arte e sull'ambizione della scultura, che è propriamente quella di imprimere sull'occhio di chi guarda le proprie caratteristiche più profonde.
Anche nel film biografico su Wladyslaw Strzemynski esiste questo forte aspetto, tanto che il titolo polacco (Powidoki) evoca in maniera letterale la persistenza delle immagini dell'occhio di chi osserva. Tuttavia qui si fermano le similitudini tra i due scultori. Mentre Dunikowski era un artista che aveva abbracciato il sistema comunista, anche con opere di carattere commemorativo e monumentale, Strzemynski fu invece un artista anti sistema, peraltro in quel periodo che va dal 1949 al 1953 in cui la stretta dell'Unione Sovietica sulla Polonia fu più soffocante e spietata. Tale atmosfera viene resa in maniera impeccabile proprio in una delle prime scene, in cui la tela di Strzeminski si tinge inaspettatamente di rosso. Non è un effetto speciale: è un grande ritratto di Stalin che viene issato proprio di fronte alla finestra dell'artista. I cambi di luce hanno un'importanza cruciale nel cinema di Wajda, specie nei suoi lavoro in bianco e nero, e hanno quasi sempre la funzione di evocare la morte, o quanto meno l'aspetto simbolico della fine. Questa scena non rappresenta solo l'ombra su un artista, ma sembra anzi evocare in maniera letterale il fondamentale saggio di Adam Zagajewski “Polonia, uno stato all'ombra dell'Unione Sovietica”, in cui è un intero paese a diventare prigioniero di se stesso e in cui gli intellettuali iniziano a scrivere per i propri cassetti, anziché per la pubblicazione. Non è un caso che venga evocata una frase di Czeslaw Milosz, esule autore de “La mente prigionieria” che recita “Se un artista non è libero di parlare, allora deve tacere”. Non essere liberi di parlare vuol dire essere complici del potere, e questa è una lezione appresa alla perfezione da Strzemynski, che in alcuni momenti chiave del film sceglie di non parlare, anche quando si tratta di una scelta di libertà che ha come cartellino del prezzo il suo futuro.
Wajda, anch'egli pittore, aveva da tempo espresso il desiderio di relizzare una pellicola su un pittore del passato, su un pittore dimenticato e oltraggiato dalla storia. Ne Il ritratto negato riaffiora alla memoria collettiva una figura tragica. Strzemynski è un personaggio tragico perché invece di schiacciare la propria personalità alle esigenze della politica, resta fedele alla sua idea di arte. In un epoca di lotta al “formalismo” e alla “estetica vuota” e di arte intesa come mezzo per indurre il popolo all'azione, questa colpa resta imperdonabile. Non manca una piccola autocitazione del regista a un altro importante film della sua carriera, L'uomo di marmo (Czlowiek z marmoru, 1977), incentrato su un personaggio fittizio, Mateusz Birkut, eroe del lavoro prima celebrato e poi dimenticato perché divenuto improvvisamente scomodo per il potere. Lo strumento per recuperare la sua memoria, da parte di una giovane reporter televisiva, è una statua di marmo, che apre la strada per il ricordo di quest'uomo. Questa statua si vede molto bene in una scena de Il ritratto negato, in uno degli studi della Scuola di arti figurative di Lodz. In effetti non è una semplice autocitazione, ma un segno tangibile che lega personaggi fittizi e personaggi realmente esistiti, anche in memoria di tutti coloro che sono stati schiacciati dal regime comunista e poi dimenticati.