Il potere del cane – L’istinto animale che ci governa
Montana, 1925. I fratelli Phil (un sorprendente Benedict Cumberbatch) e George Burbank (l’ottimo Jesse Plemons) sono i ricchi eredi di un esteso ranch appartenuto da sempre alla loro famiglia. Impegnati giornalmente con la transumanza, la lavorazione delle pelli, e la gestione di un gruppo di lavoro rigorosamente tutto al maschile, i due fratelli sono manifestazioni umane di caratteri e inclinazioni ben diverse tra loro. E se Phil, che vive all’ombra del defunto mentore Bronco Henri, è all’apparenza uomo rozzo e di poche parole, con un’indole spiccatamente aggressiva, George incarna invece tutte le caratteristiche dell’uomo buono, nato e cresciuto per prendersi cura delle cose e (soprattutto) delle persone. L’incontro con la bella locandiera Rose (Kirsten Dunst) sarà, per quest’ultimo, a dir poco rivoluzionario. Sposata la donna, la porterà infatti con sé al ranch offrendole ogni sostegno, oltre ai soldi per far studiare il figlio Peter, ragazzo schivo ma dall’intelligenza assai sottile. Il burbero Phil non prenderà affatto bene quell’invasione di campo e la conseguente rivoluzione nella sua vita, fino a quel momento animata da soli uomini. Inizierà così a tormentare Rose e a bullizzare il giovane Peter. Ma “il potere del cane” non tarderà a farsi sentire, e a operare, perentorio, il suo “regolamento di conti”.
Tratto dall’omonimo romanzo (del 1967) di Thomas Savage, vincitore al Festival di Venezia 2021, e pluri-nominato agli Oscar (il più nominato in assoluto con ben 12 nomination), Il potere del cane scritto e diretto da Jane Campion è racconto radicato e viscerale, trucido e sublime. Immerso in un luogo che appare solitario e sconfinato, delineato solo da quella dorsale di monti che secondo alcuni sguardi accorti nasconde il profilo rabbioso di un cane che abbaia, il ranch dei Burbank è un luogo-non luogo tutto al maschile, con regole e principi tutti propri.
La regia della Campion muove con maestria (sostenuta dalla meravigliosa luce e fotografia a cura di Ari Wegner) a tratteggiare l’estasi di un territorio magnifico abitato da un cameratismo serrato e da due fratelli che ne determinano – di fatto - luci e ombre. Corpi e parole diventano così il proseguimento naturale del paesaggio circostante e viceversa, fino a quando l’ingresso degli elementi di “disturbo” non interviene a spezzarne l’incantesimo. Il potere del cane, ovvero quella forza irrefrenabile e istintiva che governa ognuno di noi diventa dunque il grande protagonista della scena, pilotando - di lì in poi - il contatto reale e soprattutto emotivo tra il fisico Phil (un Cumberbatch mai così bravo e in parte) e il cerebrale e magnetico Peter (un altrettanto bravo Kodi Smit-McPhee).
Un film che disegna un quadro delle superfici dei suoi personaggi e dei suoi spazi, ma che poi sa anche scavare dentro e a fondo, nei luoghi dell’anima, nei gesti e nei silenzi, nella fisicità di ognuno, per portare a galla tutto un mondo di sentimenti ed emotività erratiche, quando non totalmente represse. Ed è proprio in questa sottile operazione che il film della Campion trascende il suo (ottimo) livello tecnico per abbracciare il senso emotivo dell’opera d’origine, e per risvegliare, poco a poco, inquadratura dopo inquadratura, quel potere del cane che alberga, più o meno dormiente, in tutti noi.
Un western solo metaforico, che è in realtà racconto di rivoluzione e spaccato sociologico di un’epoca, di un retaggio culturale e di una dimensione sociale ben precisi. Opera dall’estetica splendida che costruisce, scena dopo scena, un’emotività sinuosa e infida, capace di ribaltare – con l’attesa della lungimiranza - ogni apparenza e aspettativa. Crollo - metaforico e non - di un potere al maschile e del più forte che fallisce miseramente le sue regole, e che si ritrova a soggiacere a schemi ben più logici, e sottili. Nel suo universo in chiave maschile la Campion sfrutta al meglio il suo acuto sguardo femminile, e fonde insieme umano e animale, sacro e profano, per farne emergere un quadro sovversivo di fredda razionalità che s’impone infine sulla debole carnalità umana.