Il ponte delle spie

“Non sono preoccupato, anche perché non servirebbe…”

 

Si, perché il fatto che Spielberg sia ormai alla fine della pista è piuttosto chiaro da tempo. Saranno le 70 (quasi) primavere, ma tutti i suoi film dalla Guerra dei Mondi, salvo rare eccezioni, non sono esenti da difetti, ovvero gli mance quell’in più o quella visione innovativa che ne facevano il suo punto di forza.

La famiglia è diventata il cuore pulsante di tutte le sue opere, che ruotano intorno a questa sacralità che viene spinta sino all’eccesso, tanto da diventare ingombrante.

 

Come di consueto l’America parte da una storia vera, per ricavarne un affresco edificante e anche, a volte avvincente.

In piena Guerra Fredda (siamo alla fine dei ’50) l’avvocato Jim Donovan viene chiamato per difendere un uomo accusato di essere una spia sovietica (cosa per cui si rischia la pena di morte).

Donovan dovrà, e vorrà, battersi non tanto per l’uomo, ma per ciò che rappresenta: la possibilità per tutti di avere un processo equo.

La sconfitta aprirà però una nuova opzione: utilizzare la spia, Rudolf Abel, come merce di scambio per recuperare un pilota americano abbattuto oltre Cortina.

 

Detta così ci aspetterebbe un gran bel film di spionaggio con gusto retrò, invece…

La prima parte è una sorta di Il momento di uccidere in versione anni 50 con i russi al posto dei neri, mentre la seconda è un po’ un Ipcress miscelato con Thirteen days, come dire… niente di nuovo sul fronte occidentale.

Se a tutto questo uniamo ritmi narrativi messicani, con una durata ampiamente sopra le due ore, è facile immaginare il risultato.

Purtroppo manca anche il guizzo geniale, il colpo di scena ad effetto, la mossa magiara, insomma il momento in cui Tom Hanks tira fuori il coniglio dal cappello.

Non c’è nessun coniglio, nessun momento mirabilis, solo grande mestiere e una ricostruzione minuziosa ed affascinante degli ambienti e dell’epoca.

 

Un grande affresco spielberghiano, in cui ancora una volta troneggia salda la famiglia, esteticamente perfetto, ma senza quella scintilla che lo rese uno dei più grandi cineasti del secolo scorso.