Il ‘Planetarium’ nebuloso e caotico della Zlotowski
Accolto da numerose critiche negative alla 73esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, Planetarium, terzo film della regista Rebecca Zlotowski, uscirà nelle sale italiane in contemporanea a un’altra opera fortemente discussa, Personal Shopper di Olivier Assayas. Proiettati entrambi durante l’interessante VII edizione del Rendez-Vous Nuovo Cinema Francese, questi due lavori hanno molto in comune: spiritismo, pretenziosità e... caos narrativo. E’ un peccato constatare infatti come le intenzioni della giovane filmmaker d’oltralpe, sulla carta in apparenza più che intriganti, siano state completamente disattese per trasformarsi in un guazzabuglio concettuale di difficile interpretazione.
Laura e Kate Barlow – figure ispirate alle sorelle Fox – sono due giovani medium americane che negli anni Trenta si trovano a Parigi per concludere il loro tour di spettacoli dell’occulto. Affascinato da questo loro dono, André Korben, visionario quanto potente produttore francese di origini ebraiche, le ingaggia per girare un film molto ambizioso… proprio come ambizioso appare il lungometraggio della Zlotowski! Già, perché avere delle buone idee non sempre va di pari passo con il saperle mettere in pratica, e la cineasta francese, probabilmente persa nelle sue faticose e affaticanti elucubrazioni mentali, dirige un film confuso in cui la troppa carne al fuoco finisce per ridurre in cenere la gran parte del lavoro svolto. Ma non è tutto, perché in Planetarium anche ciò che non si carbonizza resta contaminato da una patina di fastidiosa leziosità, esempio ne è la ricerca ossessiva dell’immagine perfetta: la fin troppo affettata forma che prende il sopravvento sull’ingarbugliato contenuto.
Nonostante l’innegabile fluidità della regia, il miscuglio disordinato dei temi trattati nel film - senza peraltro fornire gli spettatori delle coordinate necessarie per apprezzarli - fa sì che assisterne alla visione diventi un’irritante maratona priva di un perché. La magia e lo sperimentalismo del cinema francese del ‘30, il legame tra lo stato di ipnosi medianica e quello dato dalla Settima arte, la nascita del Nazionalsocialismo e il conseguente antisemitismo, il ruolo delle donne nell’industria cinematografica e l’amore che lega due sorelle sono alcuni dei tanti, troppi argomenti gettati alla rinfusa nel calderone della Zlotowski. A questo nebuloso pout-pourrì si aggiungono anche scene oniriche che mostrano il defunto padre di Korben intento a parlare in yiddish tra soldati in divisa da Prima Guerra Mondiale: spiriti di defunti che si esprimono in lingue morte per allertare il pubblico sull'orrore delle guerre. Finzione e realtà, subconscio e razionalità si inseguono nel tentativo, non riuscito, di mostrare quanto nel cinema l'artificio possa essere generatore di verità.
Responsabile in primis di tale pasticcio è la lacunosa sceneggiatura, scritta dalla cineasta in collaborazione con Robin Campillo, dove l’approssimazione regna sovrana. E, per ribaltare questo deludente risultato, purtroppo a nulla servono fattori quali la convincente prova di Natalie Portman, che per buona parte del film recita in un fluente francese, l’eterea presenza di Lily-Rose Depp somigliante in toto all’attrice del muto Lillian Gish, le fugaci apparizioni di Louis Garrel e la buona interpretazione di Emmanuel Salinger, il cui sguardo enigmatico ricorda l’indimenticabile Peter Lorre.
Chi sia entrato in un planetario, l'edificio che ospita lo strumento ottico utilizzato per riprodurre in modo estremamente realistico la volta celeste sulla superficie interna di una cupola emisferica, avrà certamente goduto dell’immenso potere dell’illusione… Potere che in Planetarium è lontano da noi 13 miliardi di anni luce, la distanza - cioè - tra la galassia EGS-zs8-1 e la Terra: in una parola, irraggiungibile.