Il gioco delle coppie, ovvero quando il titolo è fuorviante
E' giusto informare chi pensa di andare a vedere la classica, adorabile commedia romantica francese che il film di Olivier Assayas, Il gioco delle coppie, non rientra affatto in questo filone. Titolo e poster sono assolutamente fuorvianti: ciò non significa che il film non sia interessante ma dimenticate opere leggere e piacevoli come per esempio Emotivi anonimi.
Il gioco delle coppie è infatti un vero e proprio trattato sociologico sull'editoria cartacea e digitale.
In un'ora e mezza di dialoghi fittissimi, dove l'accompagnamento musicale è completamente tagliato fuori, i protagonisti disquisiscono dei pro e dei contro della scrittura nel terzo millennio. E gli sbadigli, in tutta onestà, prendono presto il sopravvento. A meno che non siate, giusto appunto, degli scrittori o degli editori. In questo caso, potreste intravedere nell'opera di Olivier Assayas un approfondimento essenziale della società contemporanea grazie alle riflessioni dei protagonisti, gli ottimi Guillaume Canet, Juliette Binoche, Vincent Macaigne, Christa Théret e Nora Hamzawi, che disquisiscono di come la gente spenda migliaia di euro per gli ultimi ritrovati della tecnologia ma pretenda l'arte gratis, di come i lettori siano sempre più propensi a leggere libri in formato digitale, di come internet abbia dato la parola a chiunque e via dicendo.
Per chi sperava nella tipica commedia francese, dotata di romanticismo e ironia, la delusione è dietro l'angolo anche perché, a voler essere un po' bigotti, il film non è del tutto “edificante” dal punto di vista delle relazioni tra uomo e donna, anzi, la fedeltà appare un concetto alquanto bistrattato. Ma si sa, i francesi, da questo punto di vista, sono decisamente libertini.
Detto ciò, lo stesso paragone con Perfetti sconosciuti, di cui sembra che, molto alla lontana, il film ricalchi le orme, non regge: se infatti il film di Paolo Genovese manteneva vivo il racconto grazie ai colpi di scena e al lento svelarsi dei segreti di ognuno dei protagonisti, condendo il tutto con la claustrofobia della location singola, qui mancano brio e suspense, risate e/o lacrime. Resta solo la riflessione sul ruolo che il digitale sta avendo nel XXI secolo ma il tema non è esplorato in maniera accattivante e ben presto la noia, che sembra ammantare l'intera sceneggiatura, fa sì che ci si distragga. Lo stesso finale, dove finalmente un brano più che allegro pone fine ai dialoghi serrati, lascia un senso di incompletezza all'opera che sembra abbia fatto divertire Venezia durante l'ultimo festival ma che, onestamente, di piacevole ha solo quel bel fustacchione di Guillaume Canet.