Il Figlio di Saul

Rumori, baccani, clangori assordanti; metalli, legni, sbuffi di gas, e urla lontane e corpi ammassati come carcasse di macelleria, sono i “pezzi” da portare via, da eliminare, che ingolfano gli angusti spazi che dalla camera delle “docce” porta ai forni, dove si realizza l’esigenza primaria di quella che fu chiamata la “soluzione finale”, e cioè l’azione del cancellare, cassare, annullare, estinguere, eliminare, obliterare la memoria e il ricordo di un popolo, di una razza, di un modo di vivere e di essere e di esistere. E per far questo, si bruciano i corpi, e gli abiti, si fondono gli ori e gli argenti perché non vi sia più una reminiscenza, un pietoso riecheggiamento, una rievocazione. Ed è proprio per lasciare un segno di pietà ed umanità in un universo che sembra averne perso traccia, che Saul crede di aver riconosciuto (tra i mille “pezzi” ammassati, sempre ripresi sfocandone i contorni – questa sì, vera pietà e misericordiosa discrezione da parte del regista) un figlio che forse neanche sapeva di avere – avuto durante una relazione clandestina – del quale sempre più si convince di averne identificato le sembianze, distinte le fattezze. A quel corpo deve dare sepoltura come merita, le cose devono essere fatte nel giusto modo. La sua è ostinazione pura fino a travalicare il buon senso, fino a mettere a repentaglio la propria vita e quella dei suoi compagni (Saul fa parte dei Sonderkommando, i gruppi di Ebrei costretti dai nazisti ad assisterli nello sterminio degli altri prigionieri), ma l’affermazione di una morte pietosa – in un luogo dove la morte è catena di montaggio – diventa per Saul l’unica ragione che possa ancora giustificare la sua esistenza.

Laszlo Nemes – regista ed autore ungherese – come detto, gira questo film con senso di pietà e tiene gli orrori fuori campo, a noi giungono voci confuse ed immagini sfocate, ma non  per questo non si rinnovano sgomento e terribile turbamento all’assistere ad un film ambientato in un campo di concentramento. La camera segue i personaggi con frequenti primi piani, allargandosi di rado , non superando mai le dimensioni del  piano americano, accentuando in tal modo il senso di oppressione e di claustrofobia. Le uniche riprese più ampie, le realizza nella descrizione del tentativo di fuga (siamo ad Auschwitz nel 1944, dove effettivamente ci fu una rivolta armata). Il giovane regista affida il ruolo di protagonista (Saul) ad un attore non professionista, il poeta ungherese Géza Rohrig del quale Nemes ci dice : è una persona in costante movimento… a volte sembra giovane, a volte vecchio… a volte bello e altre brutto… sagace  o lento, ordinario e eccezionale…

E in un ambiente dove la massificazione dei corpi, resi a blocco indistinguibile, privati della loro peculiare umanità, la scelta sembra particolarmente, e drammaticamente, quella giusta…