Il cliente
Causa il cedimento strutturale della palazzina in cui vivono, Emad e Rana (insieme nella vita ma anche nell’arte, attualmente impegnati nella rappresentazione teatrale di Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller), sono costretti ad abbandonare l’appartamento in cui vivono. Aiutati poco dopo da un amico della compagnia teatrale di cui fanno parte, i due troveranno però presto una dimora alternativa, ovvero un appartamento in buono stato e da poco sfitto, e precedentemente occupato da una signora dalle molte “frequentazioni”. A pochi giorni dall’avvenuto trasloco, però, e ancora in attesa che l’ex inquilina porti via i beni di sua proprietà, un incidente accaduto a Rana mentre era in casa, impaurirà profondamente la donna, ed entrerà a gamba tesa non solo nella sicurezza che il luogo casa dovrebbe rappresentare, ma anche nell’equilibrio della coppia. Indecisi e non concordi su come affrontare quella nuova paura e quel nuovo senso di incertezza mai sperimentati prima, Emad e Rana inizieranno infatti una personale elaborazione di quel momento, mentre la loro relazione (tanto sul palco quanto fuori, nella vita) dovrà affrontare un momento ‘diegetico’ particolarmente difficile.
Da sempre incline ad analizzare la società attraverso le sue storie scarne e sempre a fuoco di sparizioni (About Elly), separazioni (Una separazione), incomprensioni passate e (dis)attese riconciliazioni (Il passato), Asghar Farhadi prende ‘a prestito’ Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller (uno dei testi più rappresentativi della drammaturgia teatrale statunitense contemporanea) per realizzare Il cliente (premio come Miglior sceneggiatura e Miglior attore protagonista al Festival di Cannes 2016), e ragionare su dinamiche e conseguenze etiche e morali scatenate da un classico elemento detonatore (un’aggressione a una donna all’indomani di un trasloco e in un paese ancora profondamente maschilista come l’Iran).
Nel parallelismo tra vita reale e vita teatrale, Farhadi (de)costruisce simmetricamente una relazione di coppia per sondarne punti deboli e fragilità, contraddizioni e pensieri latenti, insinuando l’occhio del suo film lì dove il cedimento strutturale dell’incipit fa il paio con il cedimento graduale della sintonia comunicativa della coppia protagonista. Perché se sul palco lo spettacolo che va in scena trasfigura e rilegge delusioni e frustrazioni del Will commesso viaggiatore interpretato da Emad, è sempre su quello stesso palco e all’interno di quella stessa tragedia teatrale che vanno in scena, riconfigurati, inciampi e tensioni del mondo ‘vero’. Il dolore e la paura di Rana, la rabbia e la sete di vendetta di Emad, la progressiva perdita di ‘armonia’ della coppia e il ‘rumore’ creato dal mondo circostante, assumono dunque l’altro volto di tutte quelle umanità costantemente umiliate e sconfitte, e messe ogni giorno duramente alla prova. Nel continuo rimando speculare realtà/teatro Farhadi trova ancora una volta il modo per allineare perfettamente condizione psicologica e squilibrio fisico alla (sua) tragedia. Una tragedia che monta piano per insinuarsi subdola tra le pieghe e piaghe della storia. Perché che si tratti di perdite, separazioni, passati inconciliabili, il punto è che la vita umana è costantemente messa alla prova, costantemente chiamata a indossare maschere cangianti di stati emotivi che sono in perenne evoluzione. E dunque a volte basta una piccola crepa per determinarne un’altra e un’altra ancora, e dare vita a quella sequenza inarrestabile di fratture che portano nell’immediato a uno stato di insicurezza, e alludono in prospettiva al probabile crollo dell’impalcatura di un’intera vita.