Il Clan
Tra la fine della dittatura militare e l’inizio del governo di Raúl Alfonsín l’Argentina visse un periodo di profonda destabilizzazione. La cosiddetta “guerra sporca”, 1976 - 1983, e una lunga tradizione di golpe militari resero molto complicato il processo di transizione verso la democrazia. In questo difficile contesto storico si snoda la terribile vicenda della famiglia Puccio: un caso agghiacciante che negli anni Ottanta sconvolse il popolo argentino. Pablo Trapero (Leonera 2008, Carancho 2010, ed Elefante Bianco 2012), prendendo spunto da un fatto di cronaca nera avvenuto nel tranquillo paesino di San Isidro, Buenos Aires, realizza un film che inchioda alla sedia lo spettatore dal primo all’ultimo fotogramma: Il Clan, vincitore del Leone d'Argento per la miglior regia al Festival di Venezia 2015, che vede tra i produttori niente meno che i fratelli Almodóvar.
Per perversione e brutalità la raccapricciante storia del clan Puccio supera probabilmente perfino quella dei Corleone perché, mentre questi ultimi sono il prodotto della fantasia dello scrittore Mario Puzo, Arquímedes Puccio è invece realmente esistito. Già collaborazionista ai tempi di Videla, con la complicità della moglie e di alcuni dei suoi figli dal 1982 al 1985 sequestrò e uccise numerose persone, molte delle quali sue conoscenze o amici del primogenito Alejandro. L’unico scopo di tanta barbarie era quello di ricattare i familiari delle vittime per aumentare la propria ricchezza: un uomo orribile travestito da agnello.
Fedele al suo stile, Trapero ricorre a salti temporali per costruire una narrazione estremamente fluida la cui intensità cresce man mano che i minuti scorrono. Il regista argentino, quasi flirtando con il cinema di genere, regala momenti di thriller psicologico alternati ad attimi di pura ripugnanza, e nonostante ne Il Clan non siano presenti movimenti di camera complessi, Trapero torna a utilizzare la cinepresa come fosse un occhio implacabile, un testimone muto che si limita a registrare un dramma senza fronzoli supplementari. Il suo marchio distintivo, rappresentato dalla grande abilità nel costruire magnifici piani sequenza, segna molte delle scene de Il Clan. In una di queste si osserva Arquímedes Puccio che con un vassoio pieno di cibo va di stanza in stanza ad avvisare i propri figli che la cena è pronta, la sua peregrinazione finirà in quella dove tiene rinchiuso il sequestrato: da premuroso genitore a boia in una sola manciata di minuti!
In questo mix di famiglia e orrore, di colpa e incuranza, dove tutto scorre in apparente normalità, Trapero obbliga lo spettatore ad accettare l’idea della banalità del male. Sì, perché la quotidianità della tribù Puccio viene raffigurata tra allenamenti di rugby, pranzi amorevoli, compiti scolastici… e torture. Il cineasta di San Justo ci introduce dunque nell’intimità di una famiglia esemplare dove la potente autorità paterna sembra avere steso un velo davanti agli occhi di coloro che gli ruotano intorno: rispettare in silenzio gli ordini del folle despota è quanto accade nel clan, proprio come in regime di dittatura.
La magistrale interpretazione di Guillermo Francella nei panni di Arquímedes è un valore aggiunto all’intera opera, il suo sguardo diabolico, freddo e penetrante, difficilmente cadrà nell’oblio. Neppure la bravura dell’esordiente Peter Lanzani nel ruolo di Alejandro verrà dimenticata: criminale incallito… o vittima sottomessa?
Attraverso l’arte cinematografica il regista quarantenne de Il Clan ricorda, ricostruisce e critica i deliri che la dittatura ha provocato negli anni oscuri del dopo Videla, anni in cui il compromesso ha consentito agli “orchi” assetati di denaro e potere di aggirarsi indisturbati tra la gente. Gli orchi, nel mondo odierno, esistono ancora?