Il Cittadino Illustre

Dopo il riconoscimento più alto ottenuto con il premio Nobel per la letteratura, Daniel Mantovani riceve una lettera da Salas (suo paese natale, in Argentina), che lo invita a ‘rimpatriare’ per ottenere il riconoscimento di cittadino onorario e presiedere una serie di eventi legati all’occasione. Uomo schivo, introverso, e allergico alle attività sociali (tant’è che sono anni che declina tutti gli inviti ufficiali, uno dietro l’altro) lo scrittore deciderà, mosso da curiosità e da una certa nostalgia, di accettare quell’invito. Una volta in Paese, l’accoglienza per lui sarà trionfale, osannato e celebrato per i suoi successi come un vero profeta in patria. Ma, come prevedibile, il momento di gloria non durerà poi molto. Perché di lì a poco cominceranno a sollevarsi una serie di manifestazioni di invidia, malcontento, e generale astio nei confronti di quel cittadino illustre che agli occhi dei suoi compaesani appare invece come un vigliacco fuggito alle proprie origini, per fare fortuna altrove.

La semplicità può essere sovversiva - pensa a Kafka”, dirà a un certo punto Mantovani a un aspirante giovane scrittore che gli ha consegnato dei racconti da leggere. Verissimo, perché non può esserci niente di più forte di un concetto espresso in termini semplici ma audaci e penetranti. E proprio come nella metamorfosi kafkiana, Il Cittadino Illustre ribalta prospettive e situazioni per mostrare incoerenze e paradossi del successo, dell’arte, del potere, analizzate e percepite in base ai loro contesti di riferimento. La parabola in discesa sperimentata dal protagonista Daniel Mantovani che prima viene accolto come eroe dei due mondi e poi, poco alla volta, indicato come causa di ogni male e capro espiatorio di frustrazioni e insoddisfazioni più che latenti degli ‘autoctoni’, allarga infatti la forbice tra realtà e apparenza, forma e contenuti. E dunque se è vero che un artista per essere tale deve essere in qualche modo rivoluzionario e sovversivo, è anche vero che lo stesso artista non potrà avere il riconoscimento che merita fin quando non si farà meno artista e dunque più conforme e aderente allo status quo.

A partire dalla consegna del Nobel e dalla riflessione che ne viene sulla conseguente ‘decadenza’ dell’artista in quanto tale, Gastón Duprat e Mariano Cohn realizzano un’opera sorprendente ed ‘egocentrica’ che ruota attorno all’ottimo protagonista Oscar Martínez (Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile a Venezia 2016). Società e retaggi culturali diversi si confrontano a suon di dialettica sul tema dell’arte, del successo, dell’ispirazione che può generarli, ma c’è anche un discorso molto più ampio, e molto attuale, sul chi resta e chi se ne va.

Un film quasi profetico che centra molti temi contemporanei incluso quello dei ‘Nobel’ snobbati, regalando una riflessione amara e ironica, sottile e arguta sulla popolarità e sul ‘successo’. In quanto simbolo di ‘realizzazione’, Mantovani verrà infatti aggirato e raggirato in tutti i modi dai suoi compaesani, disposti a tutto pur di condividere un po’ di quella ‘malia da star’. Chi vuole i suoi consigli, chi i suoi soldi, chi il suo vecchio amore, chi il suo benestare. Tutti però vogliono qualcosa che sia allineata alla loro idea, e quando ciò non accade, il corto circuito risulta immediato.

Un piccolo gioiello dalla confezione non particolarmente raffinata, ma dai contenuti solidi e ficcanti. E, in questo caso, non poteva esserci più coerenza tra il dire e il fare.