Il caso Spotlight
“Ho ricevuto un’educazione cattolica e, quindi, ho grande comprensione, ammirazione e rispetto per la Chiesa come istituzione. Questo film non è un attacco alla Chiesa, ma il tentativo di rispondere alla domanda: ‘Come mai succedono queste cose?’. La Chiesa ha commesso – e in alcuni casi continua commettere – atti criminali, non soltanto consentendo l’abuso di minori, ma coprendolo. Come è stato possibile che questi abusi andassero avanti per decenni senza che nessuno facesse niente per impedirlo?”.
È indispensabile riportare questa osservazione del regista Tom McCarthy – autore di The station agent (2003) e Mosse vincenti (2011), nonché candidato al premio Oscar per la sceneggiatura del lungometraggio d’animazione Up (2009) – per spiegare a dovere quali siano le intenzioni delle oltre due ore di visione volte a ricostruire su grande schermo i retroscena di una fondamentale, sconvolgente inchiesta iniziata nell’estate del 2001 e aggiudicatasi il Premio Pulitzer.
Estate in cui il Marty Baron qui interpretato da Liev”Scream”Schreiber, arrivato da Miami per dirigere il Boston Globe, incarica il team Spotlight di indagare sulla notizia di cronaca riguardante un sacerdote locale accusato di aver abusato sessualmente di decine di giovani parrocchiani nel corso di trent’anni.
E sono proprio i momenti riempiti dai racconti rilasciati dalle ormai adulte vittime di pedofilia a rientrare tra i migliori dell’insieme; man mano che, passando anche per il famigerato 11 Settembre degli attentati terroristici alle Twin Towers, ad interessarsi al caso sono il caporedattore Walter”Robby”Robinson, lo specialista in ricerche informatiche Matt Carroll e i cronisti Sacha Pfeiffer e Michael Rezendes, rispettivamente con i volti di Michael”Batman”Keaton, del televisivo Brian d’Arcy James, della Rachel McAdams di Sherlock Holmes (2009) e di Mark”Zodiac”Ruffalo.
Tutti consapevoli dei rischi cui vanno incontro, ma comunque decisi a cercare di accedere ad atti giudiziari secretati e a lasciar emergere non solo come l’insabbiamento dei casi di abuso sia sistematico, ma anche il fatto che il fenomeno sia molto più grave ed esteso di quanto si potesse immaginare.
Mentre, nei panni di Mitchell Garabedian, avvocato degli abusati, è il mai disprezzabile Stanley Tucci di Amabili resti (2009) a completare il ricco cast in ottima forma in cui l’operazione, come c’era da aspettarsi, individua il suo maggiore punto di forza.
Perché, senza dimenticare la strenua resistenza degli alti funzionari ecclesiastici e una frecciatina ad internet che, nell’epoca in cui si svolge la pellicola, cominciava a rappresentare un problema per l’informazione della carta stampata, ci troviamo, in fin dei conti, dinanzi ad un classico, appassionato omaggio al giornalismo investigativo interessante più a causa dell’argomento affrontato che per la regia priva di particolari guizzi e volutamente occultata dall’importanza dei dialoghi.
Un po’ come accaduto, tra l’altro, con La regola del gioco (2014) di Michael Cuesta, per intenderci.