I peggiori, Alfieri e Guanciale eroi a pagamento
Uno si chiama Massimo e possiede le fattezze del divo delle fiction tv d’inizio XXI secolo Lino Guanciale, l’altro è Fabrizio, incarnato dal Vincenzo Alfieri che, visto, tra l’altro, in Questa notte è ancora nostra e Niente può fermarci, concretizza attraverso I peggiori il suo debutto nella regia di un lungometraggio.
Il primo lavorante come manovale all’interno di un cantiere gestito da un losco figuro albanese preso a sfruttare i propri dipendenti (per lo più extracomunitari) e che, a volte, non li paga per mesi, il secondo laureato in legge impiegato all’archivio del tribunale, sono due fratelli che si barcamenano come possono, nella speranza di garantire un futuro migliore alla sorella tredicenne Chiara, ovvero Sara Tancredi. Due fratelli che vivono a Napoli, città che non gli appartiene e della quale faticano ad accettare usi e costumi; fino al giorno in cui non solo la piccola (e molto sveglia) viene sospesa da scuola a causa di una rissa ripresa da un cellulare e divenuta virale in rete, ma Serena alias Miriam Candurro, assistente sociale che li segue, li informa anche che il giudice non aspetta altro per togliergli l’affidamento. Una situazione che, con l’affitto arretrato destinato inoltre a farsi più pesante, li costringe a tentare un furto ai danni dell’albanese di cui sopra; senza immaginare che la goffa (non) riuscita dell’impresa arrivi a trasformarli da criminali ad eroi agli occhi dei cittadini. Eroi dai volti celati dietro le maschere dell’idolo calcistico partenopeo Diego Armando Maradona e che, raggiunta una incredibile popolarità sui social, agiscono a pagamento, forniti di microcamere, per demolire pubblicamente i furbetti che infestano l’Italia. Compresa la spietata ed algida imprenditrice edile Eva Perrot, interpretata dall’ottima Antonella Attili di Io che amo solo te e che fa da villain quasi batmaniana nel corso di circa novantacinque minuti di visione atti a regalare una coppia di nuovi supereroi tricolori d’inizio terzo millennio, dopo l’acclamato Lo chiamavano Jeeg robot di Gabriele Mainetti.
Titolo, quest’ultimo, da cui, in ogni caso, vengono totalmente prese le distanze, in quanto da un lato la vicenda raccontata si colloca volutamente nell’ambito della commedia e tende ad apparire tutt’altro che seriosa, dall’altro i due paladini della giustizia che ne sono protagonisti non manifestano alcun potere speciale, a differenza dell’Enzo Ceccotti di Claudio Santamaria. Per lo più, infatti, potremmo associarli ai giustizieri “casalinghi” di Kick-Ass e Super, privati, però, degli eccessi di violenza e forniti di battute ed esilaranti osservazioni mirate a far sprofondare lo spettatore in risate.
Perché, mentre la curata fotografia di Davide Manca provvede a conferire al tutto un look poco distante da quello che caratterizza i cinecomic d’oltreoceano, c’è tempo, tra l’altro, di effettuare una divertente escursione presso un negozio gestito da una ragazza cinese e di chiedersi grottescamente se Gotham City sia più sicura del capoluogo campano (!!!).
Man mano che i fotogrammi – comprendenti un omaggio televisivo a Terrore nello spazio di Mario Bava – scorrono via con notevole velocità e che alla riuscita dell’operazione contribuiscono anche un Francesco Paolantoni avvocato indolente e nichilista e un inedito Biagio Izzo “serio”, impegnato a sfoderare un memorabile commissario di polizia.