I am not a serial killer

Se, responsabile tra il 1974 e il 1978 di almeno trenta o trentacinque omicidi ai danni di giovani donne negli Stati Uniti, Ted Bundy è stato l’uomo per cui hanno coniato il termine “serial killer”, il sostantivo pare essersi rivelato non poco utile a Dan Wells al fine di scrivere il romanzo Io non sono un serial killer, nonché primo volume di una trilogia proseguita tramite Mr. Monster e I don’t want to kill you.
Romanzo incentrato sull’adolescente sociopatico John Wayne Cleaver che, in preda a morbose ossessioni e non privo di tendenze omicide, che fatica a tenere sotto controllo, possiede sul grande schermo le fattezze del Max Records che fu il protagonista bambino di Nel paese delle creature selvagge di Spike Jonze. Un John Wayne Cleaver che, in fissa per l’anatomia umana a causa soprattutto della vera e propria dipendenza sviluppata nei confronti dell’obitorio gestito dalla madre e in cui si occupa del lavaggio delle salme, comincia a sentirsi obbligato a proteggere chiunque lo circondi, quando qualcuno sembra iniziare a seminare cadaveri nella sua cittadina di residenza.

E, mentre si citano verbalmente altri ammazza-innocenti che hanno provveduto ad insanguinare le pagine della cronaca nera quali il Dennis Lynn Rader detto lo Strangolatore BTK e il cannibale di Milwaukee Jeffrey Dahmer, è il mitico Christopher Lloyd della trilogia Ritorno al futuro a concedere anima e corpo al tutt’altro che raccomandabile individuo. Un Christopher Lloyd la cui lodevolissima performance sembra essere destinata a rappresentare il maggiore pregio della oltre ora e quaranta di visione di I am not a serial killer, messa in piedi dal Billy O’Brien occupatosi, tra l’altro, del già dimenticato Isolation – La fattoria del terrore.

Perché, sebbene le uccisioni non manchino e venga tirata in ballo anche la cruenta immagine di un individuo con torace aperto, la suspense e le sensazioni di paura non sembrano assolutamente volerne sapere di emergere, e, di conseguenza, il tutto non può fare a meno di ridursi ad un piatto e soporifero agglomerato dai connotati fortemente televisivi. Il cui colpo di grazia, oltretutto, finisce per essere inflitto da un epilogo da horror soprannaturale che, nell’evidente tentativo di apparire originale ed inaspettato, non riesce ad evitare di risultare tanto fuori di testa quanto, purtroppo, fuori luogo.